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Indicatori di performance aziendale: documento del CNDCEC su Ebitda e PFN
Il CNDCEC ha diffuso in data 15 marzo un documento tecnico su Ebitda e PFN a fini valutativi e negoziali.
Il documento è il risultato di uno studio tecnico dettagliato su:
- l’Ebitda, acronimo di Earnings before interests taxes, depreciation and amortization, anche definito “indicatore alternativo di performance” che può essere uno degli “indicatori finanziari” di cui all’art. 2428 del Codice civile per la redazione della relazione sulla gestione.
- la PFN, definita come ”indicatore alternativo di performance” e le rettifiche al suo calcolo, che nella prassi negoziale delle operazioni di M&A costituiscono oggetto di discussione.
Viene appunto evidenziato che in frequenti applicazioni in ambito finanziario, i due indicatori sono impiegati congiuntamente per il calcolo di uno dei più comuni indici di sostenibilità finanziaria, il rapporto PFN/Ebitda, che assume una significativa valenza per svariati utilizzi quali:
- la misurazione del merito creditizio e l’attribuzione di un credit rating,
- l’analisi della performance finanziaria di periodo e la scrittura di specifiche clausole di disciplina finanziari nei contratti di finanziamento.
Vediamo la nota del CNDCEC che ha presentato lo studio degli esperti sui due indici per valutare il bilancio d'impresa.
Indicatori di performance aziendale: Ebitda e PFN
Come sottolienato dallo stesso presidente dei Commercialisti, Elbano De Nuccio, “Ebitda e Posizione Finanziaria Netta (“PFN”) sono due grandezze contabili a cui si ricorre comunemente nella frequentazione quotidiana del mondo aziendale per individuare degli agili e condivisibili misuratori di performance, nonché per l’esperienza maturata nell’effettuazione di operazioni straordinarie (fusioni o acquisizioni, anche “M&A”).
L’Ebitda pur rappresentando una misura del risultato economico di un periodo aziendale, non è statuito da alcuno standard setter, nè internazionale nè italiano e, in questo senso, è alternativo rispetto alle definizioni “ufficiali”.
L’Ebitda può essere inoltre uno degli “indicatori finanziari” di cui all’art. 2428 del Codice civile per la redazione della relazione sulla gestione.
Esso inoltre è una grandezza utilizzata come:
- a) misuratore di performance economica nonché,
- b) elemento alla base della valutazione dell’impresa.
Il presidente sottolinea che: “Il documento, che è un prezioso strumento da impiegare nel quotidiano dopo aver proposto una definizione di Ebitda che ha origine non teorica bensì empirica, si sofferma in particolare su alcune componenti di costo o ricavo la cui inclusione o esclusione dalla nozione di Ebitda nella prassi non è sempre “pacifica”, ma deve essere valutata in funzione dello specifico contesto. Vengono poi individuate alcune rettifiche alla nozione di Ebitda che la prassi delle operazioni di M&A ha introdotto nell’ultimo decennio, motivate principalmente da esigenze negoziali”.
Per quanto riguarda la PFN, spesso definita come “indicatore alternativo di performance”, de Nuccio sottolinea che il documento si pone l’obiettivo di individuare le rettifiche al calcolo della PFN, che nella prassi negoziale delle operazioni di M&A costituiscono oggetto di discussione.
In frequenti applicazioni in ambito finanziario, i due indicatori sono impiegati congiuntamente per il calcolo di uno dei più comuni indici di sostenibilità finanziaria.
Nella parte conclusiva del documento sono inoltre riportate alcune esemplificazioni pratiche al fine di un migliore comprensione dei concetti e degli intendimenti espressi con lo studio realizzato.
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Assemblee societarie a distanza: proroga fino al 31 dicembre 2024
Una norma che ha caratterizzato il periodo della pandemia da Covid-19 è stata quella contenuta nell’articolo 106 del DL 18/2020, che, in risposta ai problemi di assembramento, ha permesso a società ed enti non commerciali di espletare le assemblee societarie da remoto, utilizzando modalità telematiche, anche quando lo statuto sociale non contempla tale possibilità.
Va ricordato che tale modalità di convocazione delle assemblee non è preclusa dal legislatore, ma richiede che il soggetto giuridico ne preveda la possibilità sullo statuto sociale.
La disciplina in deroga legittima tale modalità di svolgimento delle riunioni sociali, anche nel caso in cui lo statuto non ne prevede l’eventualità.
Terminato il periodo della pandemia, la legislazione in deroga è stata di anno in anno rinnovata, l’ultima volta ad opera della Legge numero 18 del 23 febbraio 2024, l’annuale Decreto Milleproroghe, che per l’appunto proroga la possibilità di esercitare le assemblee da remoto, anche in assenza di previsione statutaria, fino al 30 aprile 2024 (per un approfondimento è possibile leggere l’articolo Assemblee a distanza per società e associazioni fino ad aprile 2024).
Tuttavia, il disposto normativo inserito in sede di conversione sul Decreto Milleproroghe, sembra essere una norma transitoria, il cui effetto terminerà nel momento in cui sarà pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Disegno di Legge Capitali (Atto camera 1515).
La nuova norma
L’articolo 11 comma 2 del DdL Capitali prevede che “il termine di cui all’articolo 106, comma 7, del Decreto Legge 17 marzo 2020, numero 18, convertito, con modificazioni, dalla Legge 24 aprile 2020, numero 27, relativo allo svolgimento delle assemblee di società ed enti, è differito al 31 dicembre 2024”.
Quindi la medesima disciplina in deroga rappresentata dall’articolo 106 del DL 18/2020 continuerà ad avere forza fino al 31 dicembre 2024.
Finora non sono state chiare le motivazioni che hanno spinto il legislatore a derogare le disposizioni statutarie con norme transitorie il cui obiettivo originario risulta da tempo superato, essendo terminate le problematiche concernenti l’assembramento che hanno caratterizzato il periodo della pandemia.
Una possibile motivazione può essere rintracciata nella parte della normativa in deroga che interessa le società quotate. Queste società, durante il periodo pandemico, grazie alle norme in deroga, hanno potuto imporre ai soci la partecipazione alle assemblee sociali per il mezzo di un rappresentante designato dalla società, impedendo così ai singoli soci di partecipare personalmente, fisicamente o telematicamente, alle assemblee.
Il DdL Capitali, tra le altre cose, non a caso proprio con il comma 1 del medesimo articolo 11, consente alle società quotate di rendere stabile tale modalità di svolgimento delle assemblee che impedisce la partecipazione diretta ai soci, e di precludere a questi la possibilità di presentare proposte di deliberazioni in assemblea o anche solo di fare domande, con una possibile contrazione del livello di democraticità delle riunioni; per cui la proroga reiterata della normativa emergenziale in deroga potrebbe costituire una sorta di ponte transitorio tra il periodo pandemico e il momento dell’approvazione delle nuove norme.
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Opzione riallineamento fiscale: cosa fare in caso di errore
L'agenzia delle entrate con l'interpello n 42 del 9 febbraio fornisce chiarimenti su errata opzione della scelta in dichiarazione per il riallineamento fiscale.
In dettaglio, chiarisce che non è utilizzabile l'istituto del ravvedimento operoso e specifica i casi in cui è utilizzabile la remissione in bonis, vediamo il perché e i dettagli del caso di specie.
Opzione riallineamento fiscale: cosa fare in caso di errore
L'istante pone un quesito in merito alla possibilità di modificare, mediante dichiarazione integrativa, la dichiarazione dei redditi relativa al periodo d'imposta 2019, per rettificare il contenuto dei campi ove è stata esercitata ''erroneamente'' una opzione (quella per riallineamento dei valori ex articolo 176, comma 2ter, del Tuir), in luogo di quella effettivamente scelta (opzione per il riallineamento di cui dall'articolo 1, commi da 696 a 704, della legge 27 dicembre 2019, n. 160).
In particolare, il contribuente «nel corso del 2017, ha effettuato un'operazione straordinaria di fusione dalla quale sono emerse delle differenze tra il valore civilistico e il valore fiscale relativamente ad un terreno sul quale insiste un fabbricato industriale.
Per effetto della citata operazione di fusione, nella dichiarazione dei redditi relativa all'anno 2018 è stato compilato il quadro RV per evidenziare il disallineamento dei valori pari ad euro […]. […]
La società istante ha inteso usufruire della normativa ritenuta di favore [prevista dal citato articolo 1, commi da 696 a 704, della legge n. 160 del 2019, per riallineare fiscalmente e a pagamento i differenziali di valore contabile/fiscale riferibili ai beni d'impresa, ndr.]. […] (…)».
Tuttavia, nella dichiarazione dei redditi 2020 (anno d'imposta 2019), regolarmente presentata dalla Società istante, il citato riallineamento è stato erroneamente esposto nella sez. VIA del quadro RQ anziché nella sezione XXIIIB dello stesso quadro RQ.
In conseguenza dell'errore commesso nella compilazione della dichiarazione dei redditi inviata telematicamente, l'imposta sostitutiva è stata erroneamente versata utilizzando il codice tributo 1126 (di cui al riallineamento ex art. 176 del TUIR) invece che con il codice da riallineamento ex art. commi 696 e seguenti della Legge n. 160/2019 (codice tributo 1811) che, peraltro, avrebbe comportato un versamento inferiore.
Premesso che, «nel corso del prossimo futuro, concluderà una serie di atti di vendita aventi ad oggetto gli immobili oggetto di riallineamento l'istante intende pertanto conoscere se:
- può rimediare presentando una dichiarazione integrativa con i dati esatti ricorrendo al ravvedimento operoso e chiedendo la rettifica del codice tributo indicato nel modello F24 mediante pratica Civis;
- in caso di risposta negativa, l’istante ritiene di poter sanare l’errore recuperando la somma tramite credito d'imposta, in linea, a suo parere, con l'articolo 3, commi 2 e 3, del Dm n. 86/2002 in tema di rivalutazioni e riallineamento di valori.
Opzione riallineamento fiscale: cosa fare in caso di errore
Le Entrate specificano che ambedue i quesiti prospettati:
- l'uno in merito alla possibilità di modificare, mediante ravvedimento operoso, la dichiarazione in parola esercitando una opzione differente rispetto a quella già espressa,
- e l'altro di recuperare l'imposta sostitutiva versata tramite il riconoscimento di un credito d'imposta
trovano risposta sfavorevole per le ragioni di seguito esposte.
Con l'istituto del ravvedimento operoso, disciplinato dall'articolo 13 del decreto legislativo del 18 dicembre 1997, n. 472, è possibile definire una irregolarità fiscale (i.e. errori, omissioni, versamenti tardivi o carenti), provvedendo spontaneamente alla rimozione formale della violazione commessa e, contestualmente, al pagamento dell'imposta dovuta, degli interessi e della sanzione in misura ridotta in ragione del tempo trascorso dalla commissione delle violazioni stesse.
Detto istituto non può, invece, essere utilizzato per modificare scelte o correggere errori o omissioni compiuti in applicazione di regimi opzionali.
Al più, lo strumento specificamente introdotto dal legislatore in particolare, con l'articolo 2, comma 1 del decreto legge 2 marzo 2012, n. 16 (convertito con modificazioni dalla legge 26 aprile 2012, n. 44) volto a evitare che, in determinate circostanze, al contribuente, in possesso di requisiti sostanziali normativamente richiesti, sia preclusa la possibilità di fruire di benefici fiscali o di regimi opzionali è, invero, l'istituto della remissione in bonis.
In base al richiamato articolo 2, «sempre che la violazione non sia stata constatata o non siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento delle quali l'autore dell'inadempimento abbia avuto formale conoscenza», il contribuente può fruire di benefici di natura fiscale e accedere ai regimi fiscali opzionali laddove:
- «a) abbia i requisiti sostanziali richiesti dalle norme di riferimento;
- b) effettui la comunicazione ovvero esegua l'adempimento richiesto entro il termine di presentazione della prima dichiarazione utile;
- c) versi contestualmente l'importo pari alla misura minima della sanzione stabilita dall'articolo 11, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, secondo le modalità stabilite dall'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio1997, n.241, esclusa la compensazione ivi prevista».
Con la circolare n. 38/E del 28 settembre 2012, è stato chiarito che «il contribuente deve effettuare la comunicazione ovvero eseguire l'adempimento richiesto ''entro il termine di presentazione della prima dichiarazione utile'', da intendersi come la prima dichiarazione dei redditi il cui termine di presentazione scade successivamente al termine previsto per effettuare la comunicazione ovvero eseguire l'adempimento stesso» requisito che, nel caso di specie, non sussiste per decorso del termine.
Sempre con la circolare n. 38/E del 2012 è stato chiarito, inoltre, che la previsione normativa in oggetto "esclude che il beneficio possa essere fruito o il regime applicato nelle ipotesi in cui il tardivo assolvimento dell'obbligo di comunicazione ovvero dell'adempimento di natura formale rappresenti un mero ripensamento, ovvero una scelta a posteriori basata su ragioni di opportunità. L'esistenza della buona fede, in altri termini, presuppone che il contribuente abbia tenuto un comportamento coerente con il regime opzionale prescelto ovvero con il beneficio fiscale di cui intende usufruire (c.d. comportamento concludente), ed abbia soltanto omesso l'adempimento formale normativamente richiesto, che viene posto in essere successivamente".
A parere delle Entrate, nel caso descritto, non si ravvisa alcuna distonia che avrebbe potuto dar luogo all'applicazione della disciplina della remissione in bonis, in ogni caso scaduta visto che il ''comportamento'' tenuto dall'istante versamento dell'imposta sostitutiva eseguito ben prima (24 luglio 2020) della presentazione della dichiarazione annuale (28 ottobre 2020) a suo dire errata è coerente con il regime opzionale indicato nella citata dichiarazione e non con quello che si chiede di modificare.
Ne deriva che la richiesta di modificare l'opzione a posteriori appare un mero ripensamento, una scelta basata su ragioni di opportunità, a nulla rilevando il richiamo al riallineamento fiscale di cui all'articolo 1 commi 696 e seguenti della legge n. 160 del 2019 presente nell'informativa del bilancio d'esercizio relativo al 2019, che rappresenta una manifestazione d'intento cui non ha fatto seguito un comportamento concludente e fiscalmente rilevante.
Alla luce delle considerazioni suesposte, all'istante è preclusa la possibilità di emendare l'opzione espressa nella dichiarazione annuale relativa al periodo d'imposta 2019.
Al fine di recuperare la maggiore imposta sostitutiva versata l'istante potrà esclusivamente presentare istanza di rimborso ex articolo 38 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, entro i termini dal medesimo previsti (48 mesi dal versamento), illustrando all'ufficio competente i motivi per i quali il versamento va considerato indebito.
Non è, invece, ammissibile il riconoscimento di un credito d'imposta in conformità a quanto disposto dall'articolo 3, commi 2 e 3, del DM n. 86 del 19 aprile 2002,
Allegati: -
Proposta distribuzione utili: conseguenze sul bilancio in caso di modifica
Con il caso n 5 pubblicato il 7 settembre da Assonime intitolato "La modifica della proposta di destinazione degli utili e i suoi effetti sul bilancio di esercizio" si chiarisce che la delibera di distribuzione dell’utile adottata dall’assemblea, pur essendo conseguenziale alla delibera di approvazione del bilancio che accerta la consistenza dell’utile stesso, ha natura autonoma e nettamente distinta da quella di approvazione del bilancio.
Nel caso n 5 Assonime evidenzia che, gli amministratori devono indicare, nella nota integrativa del bilancio d’esercizio, la proposta di destinazione degli utili dell’esercizio.
Tuttavia, la competenza sulla decisione in ordine alla destinazione dell’utile spetta all’assemblea ordinaria che, sul punto, adotta un’autonoma deliberazione, successiva a quella di approvazione del bilancio, che può modificare la proposta presentata dagli amministratori.
Nella prassi è stata sollevata la questione se la modifica alla proposta degli amministratori in merito alla destinazione degli utili, deliberata dall’assemblea, comporti la necessità di approvare nuovamente il bilancio d’esercizio.
Ricordiamo che l’art. 2433 del Codice civile prevede che spetta all’assemblea ordinaria che approva il bilancio adottare una delibera di distribuzione utili.
La delibera di distribuzione dell’utile adottata dall’assemblea, pur essendo conseguenziale alla delibera di approvazione del bilancio che accerta la consistenza dell’utile stesso, ha natura autonoma e nettamente distinta da quella di approvazione del bilancio.
La proposta degli amministratori sulla destinazione degli utili contenuta nella nota integrativa ha la funzione di aprire la sequenza procedimentale volta alla destinazione dell’utile, definendo l’oggetto della delibera assembleare.
Nel caso in cui l’assemblea modifichi la proposta del consiglio di amministrazione, la nota integrativa non deve essere modificata poiché l’informazione in essa contenuta è diretta a rendere conoscibile la proposta iniziale del consiglio, quale si è cristallizzata al momento della presentazione del progetto di bilancio, e non la decisione finale assunta dall’assemblea, che deve essere desunta dal punto specifico dell’ordine del giorno del verbale di assemblea che adotta la delibera.
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Versamenti in conto futuro aumento di capitale: dottrina e recente giurisprudenza
Gli apporti dei soci in azienda, successivi alla costituzione e al versamento del capitale sociale iniziale, possono essere a titolo di finanziamento o a fondo perduto.
I versamenti a titolo di finanziamento possono essere fruttiferi o infruttiferi, ma in ogni caso danno diritto alla restituzione delle somme versate, essendo a tutti gli effetti un debito della società, seppur verso i soci.
I versamenti a fondo perduto, diversamente, non danno diritto alla restituzione delle somme versate; e di solito sono costituiti da:
- versamenti in conto capitale;
- versamenti a copertura delle perdite.
I versamenti in conto capitale sono apporti dei soci effettuati con l’obiettivo di patrimonializzare la società; quando avvengono in una situazione di crisi, sono spesso richiesti nel contesto di un progetto di ristrutturazione del debito.
Ciò che caratterizza entrambe queste forme di conferimento atipico, è il fatto che l’impresa acquisisce le risorse a titolo definitivo, iscrivendo al patrimonio netto delle riserve disponibili.
Una particolare forma di conferimento atipico è il versamento in conto futuro aumento di capitale: che si realizza ogni qual volta i versamenti vengono effettuati per un aumento di capitale programmato ma non ancora deliberato.
La particolare connotazione della fattispecie fa sì che questa presenti delle caratteristiche peculiari non sempre di inequivoca qualificazione.
L’Organismo italiano di contabilità, sul suo documento OIC 28 dedicato al “Patrimonio netto”, considera questi versamenti effettuati a titolo definitivo, da iscriversi in apposita riserva del patrimonio netto; e, del resto, da un punto di vista fiscale, questi conferimenti vengono accettati ai fini ACE.
Ma altra parte della dottrina, come i Notai del Triveneto (sulle massime H.I.2 e I.K.2), in mancanza della definitività che deriva dalla delibera di aumento di capitale, esclude l’ipotesi di iscrizione al patrimonio netto, considerando questi versamenti effettuati a titolo di finanziamento.
In questo contesto fungono da utili bussole due recenti ordinanze della Corte di Cassazione, la numero 24093/2023 e la numero 34503/2021, che appunto affrontano la questione.
Secondo la Corte “una funzione oggettiva di credito è da escludere dinanzi a versamenti in conto di un futuro aumento di capitale, visto che essi, ove l'aumento intervenga, vanno a confluire automaticamente in esso, mentre, ove l'aumento non intervenga, vanno sì restituiti, ma non perché eseguiti a titolo di finanziamento, sebbene semplicemente perché la fattispecie in effetti programmata – l'aumento di capitale – non si è perfezionata”, e “l'iscrizione in bilancio avviene in tali casi come riserva, e non come finanziamento soci e come debito della società verso i medesimi”.
Quindi i versamenti a titolo di futuro aumento di capitale vanno considerati come dei conferimenti effettuati a fondo perduto con uno specifico vincolo di destinazione, che dovranno essere restituiti nel momento in cui non si concretizza la destinazione per cui erano stati versati.
In conseguenza di ciò questi versamenti sono privi della natura del mutuo, in quanto il rimborso non è un diritto, ma una conseguenza del venire meno della finalità per cui erano stati effettuati.
Per cui questi versamenti potranno essere considerati a titolo definitivo e iscritti al patrimonio netto come riserve personalizzate dei soci che ne hanno effettuato il versamento.
Tuttavia, affinché sia legittimamente possibile ricondurre a questa situazione i versamenti effettuati dei soci, è necessario che la subordinazione del versamento all’aumento di capitale (per quanto futuro) sia inequivocabile, specifica e dettagliata “non essendo sufficiente, la sola denominazione adoperata nelle scritture contabili, ma dovendosi dare conto anche delle finalità pratiche e degli interessi sottesi, e quindi si deve tenere conto delle clausole statutarie, delle scritture contabili e dei bilanci, del comportamento delle parti e di ogni altro elemento concreto possa avere rilievo”; in modo particolare vanno valorizzati quegli indici di dettaglio utili a qualificare le veridicità dell’operazione come l’indicazione “del termine finale entro cui verrà deliberato l'aumento, comportamento delle parti, eventuali annotazioni contenute nelle scritture contabili o, a titolo di ulteriore esempio, anche nella nota integrativa al bilancio”, o simili.