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Recupero TFR per giornalisti in CIGS con contratto di solidarietà
Con il Messaggio n. 1348 del 22 aprile 2025, l’INPS fornisce chiarimenti e istruzioni operative riguardanti il recupero delle quote di Trattamento di Fine Rapporto (TFR) per giornalisti dipendenti , precedentemente iscritti a INPGI, da parte delle imprese editoriali che hanno fruito della CIGS (Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria) in costanza di contratti di solidarietà difensiva.
Come noto la legge di Bilancio 2022 (legge n. 234/2021, art. 1, commi da 103 a 118) ha poi trasferito dal 1° luglio 2022 la funzione previdenziale dell’INPGI all’INPS, limitatamente alla gestione sostitutiva. Ciò ha determinato alcune problematiche per le imprese che non avevano ancora potuto recuperare le relative quote di TFR maturate prima del trasferimento.
Ecco le istruzioni per il recupero tramite conguaglio Uniemens.
Settore editoriale: normativa di riferimento
Il Messaggio si rivolge in particolare alle imprese editoriali che hanno impiegato giornalisti assunti con contratti disciplinati dal regime assicurativo e regolamentare dell’INPGI (Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani) fino al 30 giugno 2022.
Il quadro di riferimento è fornito dall’articolo 21, comma 5, del D.lgs. 148/2015, il quale stabilisce che le quote di accantonamento del TFR relative alla retribuzione persa per effetto della riduzione dell’orario di lavoro siano a carico della gestione di afferenza.
Il diritto è condizionato: si consolida solo in assenza di licenziamenti per motivi oggettivi o collettivi entro 90 giorni dalla fine della fruizione del trattamento CIGS, o di un eventuale trattamento straordinario successivo.
In base al Decreto Interministeriale 23 novembre 2017, n. 100495 era stata ammessa per tali imprese la possibilità di richiedere trattamenti CIGS per la causale “contratto di solidarietà difensivo”, con applicazione della disciplina dell’art. 21, comma 5, inclusa la copertura delle quote di TFR.
Aspetti operativi: come procedere al recupero – codice Uniemens
L’INPS chiarisce che le imprese editoriali che abbiano fruito della CIGS per contratti di solidarietà in favore di giornalisti e che non abbiano potuto eseguire il recupero del TFR tramite l’INPGI possono ora recuperarlo tramite conguaglio presso l’Istituto.
Come premesso, il recupero è subordinato alla verifica che nessun licenziamento per causa oggettiva o collettiva sia intervenuto entro i termini di legge (90 giorni dalla fine della CIGS o di eventuale trattamento straordinario successivo).
Solo dopo tale verifica si consolida il diritto di credito del datore di lavoro. Inoltre, il termine decennale di prescrizione decorre solo dal momento del consolidamento del diritto, garantendo un’adeguata finestra temporale per l’esercizio del recupero.
Codice di conguaglio
Ai fini pratici, il datore di lavoro deve esporre il recupero delle quote di TFR nel flusso Uniemens utilizzando il codice “L045”, che identifica le “Quote TFR ex articolo 21, comma 5, D.lgs. n. 148/2015”.
Tale codice era già stato introdotto dalla Circolare INPS n. 9 del 19 gennaio 2017, alla quale il Messaggio rinvia anche per le altre istruzioni operative. Gli importi esposti saranno oggetto di verifiche da parte dell’INPS per garantirne la coerenza con le disposizioni normative.
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Patto di non concorrenza: il compenso può essere variabile
La Corte di Cassazione si è pronunciata con ordinanza n. 9258 depositata l’8 aprile 2025 su una vicenda riguardante la disciplina del patto di non concorrenza. La conclusione cui giungono i supremi giudici riconferma che il patto è legittimo solo se tutela sia il datore di lavoro che il dipendente, garantendo a quest’ultimo un compenso adeguato e ben definito. ma precisa che si tratta di due criteri distinti che la cui valutazione nel caso di specie non è stata rispettata, per cui la sentenza favorevole al lavoratore è stata cassata.
Vediamo i dettagli del caso e le motivazioni della sentenza.
Nullità del patto di non concorrenza per compenso indeterminato: il caso
Nel 2014 un istituto finanziario aveva firmato con un proprio dipendente, il sig. A.A., un patto di non concorrenza della durata di 20 mesi dopo l'eventuale fine del rapporto di lavoro.
Secondo questo accordo, il lavoratore non avrebbe potuto svolgere la stessa attività (quella di private banker) presso banche concorrenti né contattare i clienti gestiti in precedenza, almeno nell’ambito della regione Lombardia. In cambio, la banca si impegnava a pagargli un corrispettivo annuo di 12.000 euro, da erogare in due rate durante il rapporto di lavoro.
Quando però il dipendente si dimise nel novembre 2016 e iniziò a lavorare per un concorrente l'istituto di credito lo accusò di aver violato il patto, sostenendo che avesse sviato numerosi clienti verso ill suo nuovo datore di lavoro. Per questo motivo lo citò in giudizio chiedendo un risarcimento danni molto consistente: 48.000 euro a titolo di penale contrattuale, oltre a un danno patrimoniale stimato in oltre 2 milioni e mezzo di euro (in subordine mezzo milione) e un ulteriore danno non patrimoniale di 50.000 euro.
Tuttavia, il Tribunale di Milano diede ragione al lavoratore, dichiarando nullo il patto di non concorrenza in quanto " il corrispettivo è stato ritenuto indeterminato e indeterminabile sulla base delle clausole negoziali del patto, in quanto correlato alla durata del rapporto di lavoro e in mancanza di un minimo garantito", quindi contrario a quanto stabilisce il Codice civile.
La decisione venne confermata in appello.
La Cassazione ha invece accolto il ricorso dell'Istituto di credito cassando la sentenza di merito .
Patto di non concorrenza valido se il compenso è determinabile
I giudici della Suprema Corte hanno accolto uno dei motivi di ricorso presentati dalla società e hanno stabilito che la sentenza della Corte d’Appello di Milano deve essere annullata.
Secondo la Cassazione, i giudici di merito avevano confuso due aspetti giuridici molto diversi: la "determinabilità" del compenso e la sua "congruità".
Si tratta infatti di due requisiti distinti che un patto di non concorrenza deve rispettare.
- Da un lato, il corrispettivo deve essere determinato o almeno determinabile con criteri oggettivi.
- Dall’altro, la cifra pattuita non deve essere simbolica o sproporzionata rispetto al sacrificio chiesto al lavoratore.
Nel caso in esame, il compenso era effettivamente previsto nel contratto (12.000 euro l’anno), ma i giudici d’appello hanno ritenuto che non fosse sufficiente perché legato alla durata effettiva del rapporto di lavoro, e senza un "minimo garantito". Questo li ha portati a considerare il patto nullo.
Ma la Cassazione ha fatto notare che la variabilità del compenso in base alla durata del rapporto non significa automaticamente che sia indeterminabile. Se esistono elementi oggettivi da cui ricavarlo, il patto può essere valido.
Gli ermellini hanno affermato nello specifico che: "la variabilità del corrispettivo rispetto alla durata del rapporto di lavoro non significa che esso non sia determinabile in base a parametri oggettivi, a tal fine dovendo tenersi anche conto del fatto che la banca ha contestato che la cessazione del rapporto effettivamente avesse influenza sull'ammontare dovuto. Dunque la sentenza impugnata
non tiene adeguatamente distinte le due cause di nullità del patto di non concorrenza che operano giuridicamente su piani diversi: un vizio sotto l'aspetto della determinatezza o determinabilità
dell'oggetto e l'altro sotto il profilo dell'ammontare del corrispettivo simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato."
La Corte d’Appello dovrà quindi esaminare di nuovo la questione, in diversa composizione. I giudici dovranno fare due verifiche ben distinte.
- Primo, stabilire se il corrispettivo previsto dal patto fosse determinato o determinabile in modo oggettivo.
- secondo, una volta accertato questo, valutare se la somma fosse congrua, cioè non simbolica e proporzionata alla limitazione imposta al lavoratore.
Solo se uno di questi due requisiti manca, il patto potrà essere considerato nullo. In caso contrario, la banca potrà far valere il patto e chiedere eventualmente un risarcimento per la sua violazione.
La sentenza chiarisce ancora una volta quali sono i criteri per valutare la validità di un patto di non concorrenza sulla scorta delle precedenti Cass. n. 5540/2021 e Cass. n. 33424/2022, a conferma di un orientamento ormai consolidato.
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Tutele per i lavoratori nella legge sulla Ricostruzione Post-Calamità
La Legge 18 marzo 2025, n. 40, recentemente pubblicata in Gazzetta Ufficiale è la nuova legge quadro in materia di ricostruzione post-calamità. Questa normativa mira a definire e coordinare le procedure e le attività di ricostruzione nei territori colpiti da eventi calamitosi, sia di origine naturale che antropica.
Vediamo le principali indicazioni relative in particolare alla tutela del lavoro.
L’avvio delle procedure
Viene chiarito in primo luogo che le attività di ricostruzione possono iniziare solo una volta cessato o revocato lo stato di emergenza di rilievo nazionale, dichiarato ai sensi dell'art. 24 del DLgs. 1/2018, noto come Codice della protezione civile.
L'art. 2 della legge stabilisce che lo "stato di ricostruzione di rilievo nazionale" viene aperto con una delibera del Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio o dell'Autorità politica delegata per la ricostruzione, acquisita l'intesa delle Regioni e delle Province autonome interessate.
Questa deliberazione, che fissa la durata e l'estensione territoriale dello stato di ricostruzione, è adottata nei casi in cui sia necessaria una revisione complessiva dell'assetto urbanistico ed edilizio delle aree colpite.
Obblighi per le Imprese e tutele per i lavoratori
L'art. 22 della Legge 40/2025 introduce misure specifiche per tutelare i lavoratori impegnati nella ricostruzione. In sintesi le indicazioni di base sono le seguenti:
- Gli interventi su edifici privati danneggiati o distrutti dagli eventi calamitosi devono rispettare le norme previste per le stazioni appaltanti pubbliche, in particolare per quanto riguarda il trattamento economico e normativo stabilito dai contratti collettivi di lavoro.
- Le imprese affidatarie o esecutrici devono possedere il Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC) e iscriversi presso le Casse edili provinciali o regionali, versando gli oneri contributivi.
- Le imprese sono tenute a garantire ai propri dipendenti sistemazioni alloggiative adeguate e a comunicare ai sindaci e ai comitati paritetici territoriali le modalità di sistemazione. Le organizzazioni sindacali possono definire i requisiti minimi per queste sistemazioni.
- Le imprese devono fornire ai dipendenti un tesserino identificativo con ologramma, come previsto dalle leggi vigenti.
- Infine, la legge prevede la stipula di protocolli di legalità con le organizzazioni sindacali per definire le procedure di assunzione dei lavoratori edili, istituendo un tavolo permanente per monitorare e gestire queste attività.
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Licenziamento disciplinare: valida la PEC al difensore
La sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, n. 7480 del 20 marzo 2025, chiarisce modalità di comunicazione del licenziamento disciplinare, un tema di grande rilevanza per i datori di lavoro.
Il caso in esame riguarda il ricorso presentato da A.A. contro l'Università di Bologna, in seguito al licenziamento disciplinare irrogato il 15 febbraio 2019.
La questione centrale del contendere riguarda la validità della comunicazione del licenziamento effettuata tramite PEC (Posta Elettronica Certificata) all'indirizzo del difensore del lavoratore, cosa che a suo dire aveva impedito di rispettare i termini per l'impugnazione.
Vediamo piu in dettaglio il caso e la decisione della Suprema Corte .
Licenziamento comunicato via pec del difensore: il caso e i motivi di ricorso
Il ricorrente, A.A., ha contestato la sentenza della Corte d'Appello di Bologna, che aveva rigettato il suo ricorso contro il licenziamento.
La Corte d'Appello aveva stabilito che la comunicazione del licenziamento tramite PEC all'indirizzo del difensore era valida, in quanto il lavoratore aveva eletto domicilio presso lo studio del suo avvocato. Questa decisione è stata oggetto di due motivi di ricorso in Cassazione:
il primo riguardante la presunta mancanza di motivazione della sentenza d'appello, e il secondo relativo alla violazione dell'art. 55-bis del D.Lgs. n. 165 del 2001 e degli artt. 2-6 della legge n. 604 del 1966
Il ricorrente precisava infatti che la normativa del 2001 era stata modificata dal D.Lgs. n. 75 del 2017, mentre "gli illeciti contestati al lavoratore erano stati tutti commessi tra il 2009 e il 2011, con la conseguenza che agli stessi andava applicata l'originaria formulazione della norma, che non prevedeva la possibilità di effettuare la comunicazione del licenziamento anche alla PEC del difensore del lavoratore, ma solo alla PEC del lavoratore qualora ne fosse in possesso o a mani o al fax proprio o del difensore, o a mezzo raccomandata al lavoratore. Pertanto, il licenziamento era nullo, perché intimato senza il rispetto delle disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 2 della legge n. 604 del 1966 – da cui si evince che il termine di 60 giorni per l' impugnazione non opera per il licenziamento non comunicato per iscritto o di cui non siano indicati i motivi (operando in tal caso l'ordinario termine di prescrizione) e dunque inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro"
La Cassazione ha dichiarato inammissibili entrambi i motivi di ricorso, confermando la validità della comunicazione del licenziamento tramite PEC all'indirizzo del difensore.
Licenziamento disciplinare alla PEC del difensore: le motivazioni
Sul primo motivo la Cassazione ha rilevato che la Corte d'Appello aveva correttamente motivato la sua decisione. In particolare, la Corte d'Appello aveva osservato che il lavoratore era stato informato della comunicazione del licenziamento tramite PEC e raccomandata, e che tale comunicazione era avvenuta in conformità con l'art. 52-bis del D.Lgs. n. 165 del 2001, vigente al momento dei fatti.
La Cassazione ha sottolineato che il lavoratore aveva eletto domicilio presso lo studio del suo avvocato, indicando l'indirizzo PEC del difensore come luogo idoneo per le comunicazioni. Questo elemento ha reso legittima la comunicazione del licenziamento tramite PEC all'indirizzo del difensore, in quanto il lavoratore aveva espressamente indicato tale indirizzo come luogo di notifica.
Con il secondo motivo il ricorrente ha contestato la violazione dell'art. 55-bis del D.Lgs. n. 165 del 2001, sostenendo che la comunicazione del licenziamento tramite PEC all'indirizzo del difensore non fosse conforme alla normativa vigente al momento dei fatti.
Tuttavia, la Cassazione ha respinto anche questo motivo, affermando che la Corte d'Appello aveva correttamente applicato la normativa vigente.
La Cassazione ha anche richiamato la giurisprudenza secondo cui l'indicazione della PEC del difensore, senza ulteriori specificazioni limitative, è idonea a far scattare l'obbligo del notificante di utilizzare la notificazione telematica.
Inoltre, la Cassazione ha sottolineato che lo statuto giuridico dell'avvocato attribuisce specifico rilievo alla PEC dello stesso, quale domicilio privilegiato per le comunicazioni e notificazioni. Pertanto, la comunicazione del licenziamento tramite PEC all'indirizzo del difensore è stata ritenuta valida.
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Indennità malattia maternità INPS 2025
A seguito dell'aggiornamento ISTAT del limite minimo di retribuzione giornaliera e degli altri valori per il calcolo delle contribuzioni dovute per la generalità dei lavoratori dipendenti con la circolare INPS 72 2025 l'istituto indica le retribuzioni di riferimento e gli importi minimi delle prestazioni economiche di
- malattia, di
- maternità/paternità e di
- tubercolosi.
Di seguito l'elenco completo dei contenuti della circolare :
Premessa
A) Retribuzioni di riferimento nell’anno 2025
1) Lavoratori soci di società e di enti cooperativi, anche di fatto, di cui al D.P.R. 30 aprile 1970, n. 602, articolo 4 (malattia, maternità/paternità e tubercolosi)
2) Lavoratori agricoli a tempo determinato (malattia, maternità/paternità e tubercolosi)
3) Compartecipanti familiari e piccoli coloni (malattia, maternità/paternità e tubercolosi)
4) Lavoratori italiani operanti all’estero in Paesi extracomunitari con i quali non sono in vigore accordi di sicurezza sociale (malattia, maternità/paternità e tubercolosi)
5) Lavoratori italiani e stranieri addetti ai servizi domestici e familiari (maternità/paternità)
6) Lavoratori autonomi: artigiani, commercianti, coltivatori diretti, coloni, mezzadri, imprenditori agricoli professionali, pescatori autonomi della piccola pesca marittima e delle acque interne (maternità/paternità)
B) Importi da prendere a riferimento, nell’anno 2025, per altre prestazioni
1) Lavoratori iscritti alla Gestione separata di cui alla legge n. 335/1995 (maternità/paternità, congedo parentale, assegni per il nucleo familiare, malattia e degenza ospedaliera)
2) Assegno di maternità di base di cui all’articolo 74 del D.lgs n. 151/2001 (c.d. assegno di maternità dei Comuni, importo prestazione e limite reddituale)
3) Assegno di maternità per lavori atipici e discontinui di cui all’articolo 75 del D.lgs n. 151/2001(c.d. assegno di maternità dello Stato)
4) Limiti di reddito ai fini dell’indennità del congedo parentale nei casi previsti dall’articolo 34, comma 3, del D.lgs n. 151/2001
5) Articolo 42, comma 5, del D.lgs n. 151/2001. Indennità economica e accredito figurativo per i periodi di congedo riconosciuti in favore dei familiari di disabili in situazione di gravità
Prestazioni INPS 2025: i valori di riferimento
Riportiamo di seguito i valori principali comunicati dell'INPS:
Minimali retributivi per liquidazione prestazioni nel 2025:
- Lavoratori soci di società ed enti cooperativi: 57,32 euro/giorno
- Lavoratori agricoli a termine: 50,99 euro/giorno
- Compartecipanti familiari e piccoli coloni (reddito valido per il 2024): 63,06 euro
- Lavoratori italiani all’estero: Retribuzioni convenzionali determinate con DM 16 gennaio 2025
Retribuzioni convenzionali orarie per lavoratori domestici (calcolo indennità congedo maternità/paternità 2024):
- 8,40 euro (se retribuzione oraria effettiva ≤ 9,48 euro)
- 9,48 euro (se retribuzione oraria effettiva tra 9,48 e 11,54 euro)
- 11,54 euro (se retribuzione oraria effettiva > 11,54 euro)
- 6,11 euro (se orario > 24 ore settimanali)
Valori di riferimento per indennità di maternità/paternità e congedo parentale per lavoratori autonomi:
- Artigiani e commercianti: 57,32 euro
- Pescatori: 31,85 euro
- Coltivatori diretti, coloni, mezzadri, imprenditori agricoli professionali: 50,99 euro
Assegno di maternità:
Concesso dai Comuni: 407,40 euro/mese (totale 2.037 euro)
Assegno di maternità dello Stato: 2.508,04 euro
Indennità di congedo parentale (DLgs. 151/2001, art. 34, comma 3):
- Importo annuo trattamento minimo pensionistico (provvisorio per il 2025): 7.844,20 euro
- Limite di reddito del richiedente (2,5 volte l’importo pensionistico): 19.610,50 euro
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Nuovo congedo di 24 mesi per patologie gravi: OK della Camera
La Camera ha approvato il 25 marzo 2025 in prima lettura una proposta di legge che interviene per sanare le difficolta che spesso affrontano i lavoratori affetti da malattie oncologiche per le lunge assenze dal lavoro cui sono costretti . Si tratta di un periodo di congedo che può arrivare a 24 mesi ma senza retribuzione. Secondo molte associazioni la misura comunque non è soddisfacente.
In attesa dell'approvazione definitiva vediamo meglio i dettagli operativi, le motivazioni e le reazioni.
Comporto per malattie gravi: la legge in arrivo
il disegno di legge, a prima firma Debora Serracchiani, è frutto di un lungo iter parlamentare e sostenuto da più forze politiche, intende offrire una tutela a chi, grazie ai progressi della medicina, riesce a convivere con patologie cronicizzate ma necessita di lunghi periodi di cura e ripresa.
Si ricorda tra l'altro che il superamento del periodo massimo di assenza per il lavoro dipendente, fissato in 180 giorni da un Regio decreto del 1924 può portare anche al licenziamento.
Recentemente numerose pronunce di Cassazione hanno annullato in alcuni casi le sentenze di merito basate sul rispetto formale della legge e hanno evidenziato la necessità di garantire un comporto prolungato per alcune patologie gravi.
DDL congedo patologie gravi: cosa prevede
Le nuove norme prevedono di concedere ai lavoratori dipendenti pubblici e privati con un’invalidità pari o superiore al 74%, in quanto affetti da
- patologie oncologiche,
- croniche invalidanti o
- rare,
il diritto di conservare il proprio posto di lavoro fino a un massimo di 24 mesi, anche in caso di assenza prolungata.
Il congedo però non sarà retribuito e non comporterà la maturazione di contributi previdenziali o anzianità di servizio, sebbene sia possibile riscattare volontariamente i contributi.
Tra le misure aggiuntive, è prevista l’assegnazione di 10 ore annue di permessi retribuiti per visite ed esami medici e una corsia preferenziale per il lavoro agile al termine del congedo.
L’accesso alle 10 ore di permessi retribuiti richiede una prescrizione medica e, in caso di minori, può essere fruito dal genitore accompagnatore.
Per i lavoratori autonomi è prevista la possibilità di sospendere l’attività per un massimo di 300 giorni nell’anno solare.
In ogni caso non sarà consentito svolgere altre attività lavorative durante il periodo di congedo.
Dal punto di vista della procedura amministrativa è prevista una certificazione semplificata per accedere ai benefici della legge, con i certificati che potranno essere rilasciati da medici di base o specialisti del Servizio Sanitario Nazionale.
Per i datori di lavoro del settore privato sarà possibile richiedere il rimborso degli oneri sostenuti, mentre nel pubblico impiego la sostituzione del personale assente sarà regolata dai contratti collettivi.
DDL congedo patologie gravi: le reazioni
Nonostante l’ampio consenso parlamentare e il riconoscimento della legge come un primo passo verso maggiori tutele, le associazioni di pazienti hanno sollevato diverse criticità.
In particolare, la mancanza di retribuzione per i 24 mesi di congedo e l’assenza di una copertura previdenziale sono viste come lacune significative, con il rischio di mettere in difficoltà economica molti lavoratori malati.
Alcune associazioni, come FAVO , AIL e Uniamo, hanno sottolineato la necessità di un supporto economico durante la sospensione dal lavoro e l’esclusione dei giorni di day hospital dal computo del comporto.
L’iter legislativo proseguirà ora al Senato, dove potrebbero essere introdotte modifiche per migliorare il testo e rispondere alle richieste di maggiore tutela economica per i lavoratori malati.
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Controllo a distanza via GPS: maxi multa anche se autorizzato
Nuovo severo intervento del Garante per la privacy in tema di controllo a distanza dei lavoratori attraverso il sistema GPS installato nei veicoli aziendali.
Con il provvedimento N.101187 del 16 gennaio reso noto con la newsletter del 21 marzo 2025 è stata infatti comminata una sanzione di 50 mila euro a un datore di lavoro per l'utilizzo di un sistema di geolocalizzazione, supper autorizzato dall'ispettorato del lavoro, in maniera illecita.
Il provvedimento sottolinea infatti l’importanza di trasparenza e proporzionalità nel trattamento dei dati personali sul lavoro.
L’uso di sistemi di geolocalizzazione deve rispettare il principio di minimizzazione, garantendo che le informazioni raccolte siano strettamente necessarie e trattate nel rispetto della privacy dei dipendenti
Vediamo di seguito i dettagli della vicenda.
Divieto controllo a distanza: il reclamo
Il provvedimento riguarda un reclamo presentato il 23 settembre 2024 da un lavoratore contro una società di autotrasporti , ex datore di lavoro, per presunte violazioni delle normative sulla protezione dei dati personali. In particolare si evidenziava l’installazione di un sistema di geolocalizzazione nei veicoli aziendali senza aver informato adeguatamente i dipendenti e senza aver seguito le procedure previste dallo Statuto dei lavoratori (art. 4 della Legge 300/1970).
Il Garante ha esaminato il caso alla luce del Regolamento UE 2016/679 (GDPR) e del Codice della privacy (D.lgs. 196/2003, modificato dal D.lgs. 101/2018).
e ha richiesto chiarimenti alla società.
Quest’ultima ha risposto affermando di aver ottenuto autorizzazione dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro (ITL) di Cagliari-Oristano per l’uso del sistema di geolocalizzazione il 19 maggio 2021. L’autorizzazione era stata concessa per tutelare il patrimonio aziendale, garantire la sicurezza sul lavoro e migliorare l’organizzazione produttiva.
La società ha anche dichiarato che:
- Aveva informato i dipendenti tramite un’informativa affissa in bacheca.
- Gli autisti non erano autorizzati a usare i mezzi fuori dall’orario di lavoro.
- I dati erano trattati in conformità agli articoli 5 e 6 del GDPR.
- La geolocalizzazione rimaneva attiva anche durante le pause di lavoro.
- I dati raccolti non erano associati direttamente al conducente, ma solo al veicolo.
Nonostante ciò, la società non ha risposto a una successiva richiesta di informazioni del Garante, il che ha portato all’avvio di un procedimento sanzionatorio e a verifiche da parte della Guardia di Finanza.
Risultati delle ispezioni e istruttoria sul produttore del sistema GPS
Il Nucleo speciale privacy della Guardia di Finanza ha accertato che la società utilizzava il sistema di geolocalizzazione WAY di TIM, attivato nel maggio 2021. Dall’indagine sono emerse diverse criticità:
- Tutti i mezzi aziendali erano dotati del sistema di geolocalizzazione.
- I dati erano raccolti continuativamente (con un ritardo di 3-5 minuti).
- Il nome dell’autista era associato al veicolo al momento dell’installazione, ma non aggiornato in tempo reale.
- L’azienda aveva fornito informazioni incomplete ai lavoratori, senza specificare tutti i dettagli sul trattamento dei dati.
- Era possibile risalire all’identità del conducente incrociando più database.
Il Garante ha quindi avviato un’istruttoria anche su WAY S.r.l., fornitore del servizio di geolocalizzazione. L’azienda ha confermato che:
- TIM era il responsabile del trattamento e WAY il sub-responsabile.
- Il sistema registrava dati di localizzazione, velocità, chilometraggio e dati cronotachigrafici.
- Esisteva una funzione per disattivare la geolocalizzazione (pulsante privacy), ma non era stata attivata.
- La piattaforma consentiva di registrare dati personali come nome e numero di patente del conducente.
Controllo a distanza con GPS le violazioni e le sanzioni
Dall’esame delle prove raccolte, il Garante ha individuato diverse violazioni del GDPR e del Codice della Privacy, tra cui:
- a) Violazione degli artt. 5, 13 e 88 del GDPR
L’informativa fornita ai dipendenti era inadeguata e incompleta, in quanto:
Non chiariva che i conducenti fossero identificabili indirettamente.
Conteneva informazioni contraddittorie e refusi.
Non spiegava chiaramente che la geolocalizzazione avveniva continuativamente, anche nelle pause.
- b) Violazione dei principi di minimizzazione e limitazione della conservazione (art. 5 GDPR)
Il trattamento dei dati era sproporzionato rispetto alle finalità dichiarate. Il sistema registrava informazioni:
In modo continuativo e non solo quando necessario.
Anche durante le pause lavorative, violando il principio di minimizzazione.
Per 180 giorni, un periodo eccessivo rispetto alle esigenze aziendali.
c) Violazione dell’art. 157 del Codice Privacy
La società non ha risposto a una richiesta di informazioni del Garante, rendendo necessario l’intervento della Guardia di Finanza.
Sanzioni e misure correttive
In base agli accertamenti, il Garante ha adottato le seguenti misure correttive e sanzionatorie:
La società dovrà:
Aggiornare l’informativa in modo chiaro e dettagliato.
Adeguare il sistema di geolocalizzazione rispettando i principi di minimizzazione e limitazione della conservazione.
Il Garante ha imposto una sanzione di 50.000 euro, valutando:
La gravità della violazione, che ha coinvolto circa 50 dipendenti.
La durata del trattamento illecito, in corso dal 2021.
L’assenza di precedenti violazioni da parte della società.
Il provvedimento viene inoltre pubblicato sul sito del Garante, considerando la lesione dei diritti dei lavoratori e la necessità di dissuasione per altre aziende.
La società deve adeguarsi entro 60 giorni. In caso di mancata conformità, potrebbero essere applicate ulteriori sanzioni.
La società ha 30 giorni per pagare la sanzione o 60 giorni per presentare ricorso al tribunale ordinario.
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