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Mansioni sottoposte ad obbligo di test antidroga
Sulla G.U. n. 234 del 06/10/2008 è stato pubblicato il Provvedimento del 18/09/2008 che recepisce quanto deliberato dalla Conferenza Stato Regioni in materia di definizione delle procedure per gli accertamenti sanitari di assenza di tossicodipendenza o di assunzione, anche sporadica, di sostanze stupefacenti o psicotrope in lavoratori addetti a mansioni che comportano particolari rischi per la sicurezza, l'incolumità e la salute proprie e di terzi.
Si tratta in particolare delle attività inerenti il settore trasporto, quali autisti e addetti alla guida di macchine movimentazione merci (carrelli elevatori, ecc.), nonché di quelle individuate nell'allegato al Provvedimento e riportate nella tabella sottostante.
Per tali mansioni sono obbligatori accertamenti sanitari preventivi e periodici anti droga.
Accertamenti sanitari e sanzioni contro l’uso di droghe al lavoro
Visita medica preventiva:
prima di adibire un lavoratore all'espletamento di mansioni comprese nell'elenco allegato al provvedimento il datore di lavoro provvede a richiedere al medico competente gli accertamenti sanitari del caso, comunicandogli il nominativo del lavoratore interessato.
Il medico competente verifica l'assenza di assunzione di sostanze psicotrope e stupefacenti sottoponendolo a specifici test di screening.
Il medico competente entro 30 giorni dalla richiesta predetta comunica la data ed il luogo della visita al lavoratore interessato almeno un giorno prima.
Visita medica periodica:
nel caso in cui i lavoratori siano addetti a mansioni comprese nel citato elenco, il datore di lavoro deve procedere all'effettuazione di visite mediche periodiche da parte del medico competente con cadenza almeno annuale.Il datore di lavoro informa il lavoratore interessato della data dell'accertamento e gli comunica il luogo ove l'accertamento si svolgerà all'inizio del turno di lavoro del giorno fissato per l'accertamento.
Nel caso in cui il lavoratore non si sottoponga all'accertamento di assenza di tossicodipendenza, la struttura sanitaria competente dispone, entro dieci giorni, un nuovo accertamento.
In caso di rifiuto non motivato del lavoratore, il datore di lavoro, ove non possa adibirlo ad altre mansioni diverse da quelle considerate a rischio, deve farlo cessare dalle mansioni comprese nell'elenco di cui all'allegato, fino a che non venga accertata l'assenza di tossicodipendenza.
Il datore di lavoro che non adempie all'obbligo di fare cessare dalla mansione il lavoratore tossicodipendente è sanzionato con l'arresto da 2 a 4 mesi o con l'ammenda da € 5.164,00 a € 25.799,00.
Le fasi della procedura di accertamento possono essere così riassunte:- il datore di lavoro comunica al medico competente, per iscritto, i nominativi dei lavoratori da sottoporre ad accertamento di assenza di tossicodipendenza e di assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope in base al fatto che svolgono le mansioni a rischio indicate nella citata tabella.
- il medico competente entro 30 giorni da quando riceve l'elenco dal datore di lavoro stabilisce il cronogramma per gli accessi dei lavoratori agli accertamenti definendo date e luogo di esecuzione degli stessi in accordo con il datore di lavoro che dovrà comunicarlo al lavoratore con un preavviso non superiore a un giorno.
- il lavoratore può rifiutarsi di eseguire la visita e viene sospeso dalla mansione; non si presenta agli accertamenti e non produce una valida giustificazione, lo stesso sarà sospeso in via cautelativa dalla mansione a rischio e riconvocato entro 10 giorni; non si presenta ma si giustifica, dovrà essere riconvocato entro dieci giorni.
In caso di positività degli accertamenti di primo livello il lavoratore viene giudicato temporaneamente inidoneo alla mansione e viene inviato alle strutture sanitarie competenti per l'effettuazione degli ulteriori approfondimenti diagnostici di secondo livello.
Qualora gli accertamenti clinici e tossicologici di secondo livello, eseguiti presso la struttura sanitaria competente, risultino positivi, verrà data comunicazione scritta al medico competente, il quale, a sua volta, certificherà l'inidoneità temporanea del lavoratore alla mansione e informerà il datore di lavoro che provvederà tempestivamente a far cessare dall'espletamento della mansione il lavoratore interessato.
In caso di positività il lavoratore avrà diritto ad accedere a programmi di recupero e alla sospensione del rapporto di lavoro.
I costi degli accertamenti sono a carico del datore di lavoro e vengono svolti, su segnalazione dello stesso datore, dal medico competente, mentre, invece, sono a carico del lavoratore le eventuali contro analisi.
ATTENZIONE La visita medica non può essere preassuntiva, perché vietata dalla Legge 300/70, ma deve essere preventiva post assuntiva, cioè effettuata dopo l'assunzione, prima che il lavoratore venga adibito alla mansione.
Tabella mansioni soggette ad test antidroga
Mansioni soggette a sorveglianza antidroga:
la tabella sotto riportata elenca le mansioni e le attività che comportano particolari rischi per la sicurezza, l'incolumità e la salute proprie e di terzi.
1) Attività per le quali e' richiesto un certificato di abilitazione per l'espletamento dei seguenti lavori pericolosi
- impiego di gas tossici (art. 8 del regio decreto 1927, e successive modificazioni);
- fabbricazione e uso di fuochi di artificio (di cui al regio decreto 6 maggio 1940, n. 635) e posizionamento e brillamento mine (di cui al decreto del Presidente della Repubblica 19 marzo 1956, n. 302);
- direzione tecnica e conduzione di impianti nucleari (di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 dicembre 1970, n. 1450, e s.m.).
2) Attività di trasporto
- conducenti di veicoli stradali per i quali e' richiesto il possesso della patente di guida categoria C, D, E , e quelli per i quali e' richiesto il certificato di abilitazione professionale per la guida di taxi o di veicoli in servizio di noleggio con conducente, ovvero il certificato di formazione professionale per guida di veicoli che trasportano merci pericolose su strada;
- personale addetto direttamente alla circolazione dei treni e alla sicurezza dell'esercizio ferroviario che esplichi attivita' di condotta, verifica materiale rotabile, manovra apparati di sicurezza, formazione treni, accompagnamento treni, gestione della circolazione, manutenzione infrastruttura e coordinamento e vigilanza di una o più' attività di sicurezza;
- personale ferroviario navigante sulle navi del gestore dell'infrastruttura ferroviaria con esclusione del personale di camera e di mensa;
- personale navigante delle acque interne con qualifica di conduttore per le imbarcazioni da diporto adibite a noleggio;
- personale addetto alla circolazione e a sicurezza delle ferrovie in concessione e in gestione governativa, metropolitane, tranvie e impianti assimilati, filovie, autolinee e impianti funicolari, aerei e terrestri;
- conducenti, conduttori, manovratori e addetti agli scambi di altri veicoli con binario, rotaie o di apparecchi di sollevamento, esclusi i manovratori di carri ponte con pulsantiera a terra e di monorotaie;
- personale marittimo di prima categoria delle sezioni di coperta e macchina, limitatamente allo Stato maggiore e sottufficiali componenti l'equipaggio di navi mercantili e passeggeri, nonché il personale marittimo e tecnico delle piattaforme in mare, dei pontoni galleggianti, adibito ad attività off-shore e delle navi posatubi;
- controllori di volo ed esperti di assistenza al volo;
- personale certificato dal registro aeronautico italiano;
- collaudatori di mezzi di navigazione marittima, terrestre ed aerea;
- addetti ai pannelli di controllo del movimento nel settore dei trasporti;
- addetti alla guida di macchine di movimentazione terra e merci.
3) Funzioni operative proprie degli addetti e dei responsabili della produzione, del confezionamento, della detenzione, del trasporto e della vendita di esplosivi
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No al licenziamento per scioperi in nome della sicurezza
La Corte di Cassazione, con Ordinanza n. 6787 del 14 marzo 2024, si pronuncia in merito ad un licenziamento intimato a fronte di uno sciopero indetto da dei lavoratori per la tutela della loro sicurezza e incolumità.
Licenziamento e diritto di sciopero: il caso
Nel caso giunto al vaglio della Cassazione alcuni lavoratori avevano aderito ad uno sciopero e partecipato a manifestazioni di protesta per il miglioramento delle condizioni di sicurezza aziendali e il datore di lavoro aveva ritenuto che i danneggiamenti che ne erano seguiti costituissero giusta causa di licenziamento per abbandono del posto di lavoro.
In appello i licenziamenti venivano giudicati illegittimi per mancanza di prove sulle responsabilità individuali dei dipendenti licenziati con conseguente annullamento e obbligo di reintegra .
Veniva anche accertato che una delle motivazioni dello sciopero era collegata alla richiesta di trasferimento di un lavoratore responsabile di aggressione e e di aver portato un arma sul luogo di lavoro , che l'azienda aveva respinto.
I giudici di merito avevano affermato che la richiesta sindacale di allontanamento del lavoratore è prevista dell'art. 2087 c.c. e che i datore di lavoro non puo valutare le motivazioni di uno sciopero ma solo le modalità con cui si realizza veniva escluse violazioni in quanto di danneggiamenti non avevano riguardato la capacità produttiva dell'azienda ma solo alcuni beni di produzione aziendale.
La sentenza: il datore di lavoro non ha voce sulle motivazioni dello sciopero
Nella sentenza la Cassazione richiama l'art. 40 Cost sul diritto di sciopero che è attribuito ai lavoratori e precisa, vista la mancata realizzazione di una precisa disciplina legislativa in materia, che , in linea generale,
- lo sciopero consiste in un'astensione dal lavoro decisa dai lavoratori per la tutela di qualsiasi interesse collettivo che incida sui rapporti di lavoro;
- sono vietate le forme di attuazione con modalità delittuose, cioè lesive dell'incolumità e della libertà delle persone, o di diritti di proprietà o della capacità produttiva delle aziende.
- non sono rilevanti le valutazioni sulla fondatezza delle ragioni né la mancanza di preavviso
- è costitutivo dello sciopero il fatto di creare un danno al datore di lavoro ed è illegittimo solo il comportamento che pregiudichi irreparabilmente la capacità produttiva dell'azienda.
Nello specifico la Corte considera legittima la richiesta di piena tutela della sicurezza sul luogo di lavoro a fronte di comportamenti pericolosi del soggetto che si chiedeva di allontanare e giudica non rilevanti i danni prodotti dalla manifestazione in quanto non lesivi della produttività aziendale.
Ha confermato in oltre la valutazione del giudizio di merito in relazione alle mancate prove sulle responsabilità individuali dei lavoratori per cui respinge il ricorso dell'azienda in quanto i licenziamenti impartiti come punizione collettiva per l'esercizio del diritto di sciopero in assenza di giusta causa o giustificato motivo risultano illegittimi.
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Ispezioni sul lavoro: nuovi chiarimenti sul potere di disposizione
La sentenza del Consiglio di Stato n. 2778/2024 affronta una questione di grande rilevanza per i datori di lavoro , focalizzandosi sulle prerogative degli ispettori del lavoro. Inoltre sottolinea le conseguenze dell'inosservanza di tali richieste confermando una precedente interpretazione dell'Ispettorato stesso . La decisione chiarisce alcuni aspetti fondamentali riguardo all'applicazione dell'articolo 14 del D.Lgs. 124/2004
Il caso analizzato dal Consiglio
Il caso specifico trattato nella sentenza riguarda un contenzioso tra l'Ispettorato del Lavoro e il Patronato Inas Cisl, relativo all'applicazione dell'articolo 14 del D.Lgs. 124/2004. Il nucleo della controversia si concentra sull'emissione di un "provvedimento di disposizione" da parte dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro di Udine-Pordenone, il quale ha richiesto al Patronato Inas Cisl di rivedere l'inquadramento di alcuni dipendenti, considerato non conforme alle disposizioni contrattuali vigenti.
Il Patronato Inas Cisl ha impugnato il provvedimento per vari motivi, tra cui la presunta illegittimità dello stesso per essere stato emesso oltre il termine massimo previsto dalla legge, la mancanza di una motivazione adeguata e l'assenza di una precisa indicazione delle fonti di prova che giustificassero la decisione degli ispettori. Il TAR del Friuli Venezia Giulia, in primo grado, aveva accolto il ricorso del Patronato, escludendo che l'inquadramento dei lavoratori in una categoria contrattuale diversa da quella asseritamente spettante rientrasse tra le irregolarità che potevano essere contestate dall'Ispettorato nell'esercizio del potere di disposizione previsto dall'art. 14.
Il Consiglio di Stato, tuttavia, ha ribaltato la decisione del TAR, sostenendo che il potere di disposizione degli ispettori del lavoro si estende anche alle violazioni dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Questa interpretazione amplia significativamente l'ambito di applicazione dell'art. 14, riconoscendo agli ispettori la capacità di intervenire in una varietà più ampia di irregolarità relative al lavoro e alla legislazione sociale, purché non già soggette a sanzioni penali o amministrative.
Nonostante la decisione del Consiglio di Stato di riconoscere l'ammissibilità dell'applicazione dell'art. 14 alle violazioni dei CCNL, la sentenza ha poi confermato l'esito del TAR, ma con diversa motivazione, basata sulla mancanza di adeguata motivazione e insufficiente istruttoria del provvedimento impugnato. In sostanza, sebbene il Consiglio di Stato abbia chiarito l'ambito di applicazione dell'art. 14, ha comunque ritenuto che, nel caso specifico, il provvedimento di disposizione non fosse stato adeguatamente motivato e supportato da un'istruttoria idonea, portando alla conferma dell'annullamento dello stesso.
Potere degli ispettori e sanzioni amministrative
La sentenza ricorda che gli ispettori hanno il potere di emettere un "provvedimento di disposizione", immediatamente esecutivo, per richiedere ai datori di lavoro di conformarsi alle normative contrattuali. Questo potere si estende a tutti i casi di irregolarità non già soggette a sanzioni penali o amministrative, inclusa l'applicazione errata dei contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL).
ATTENZIONE La sanzione amministrativa prevista dall'articolo 14 scatta solo se il datore di lavoro non ottempera al provvedimento ispettivo. Quindi, non è l'irregolarità in sé a essere sanzionata, ma la mancata conformità alle disposizioni dell'ispettore.
La novità nell'interpretazione del Consiglio di Stato sta nel fatto che il potere di disposizione degli ispettori include anche le violazioni dei CCNL, superando la precedente decisione del TAR che aveva limitato l'ambito di applicazione . La sentenza sottolinea l'importanza della piena ed effettiva applicazione dei CCNL, evidenziando la rilevanza pubblicistica di queste norme.
Questo implica che i datori di lavoro devono attenersi strettamente alle disposizioni degli ispettori del lavoro. La mancata impugnazione di un provvedimento di disposizione rende definitivo l'accertamento delle irregolarità, limitando così le possibilità di contestazione in fase successiva.
Viene rimarcata infine la necessita dell''adeguatezza della motivazione e della istruttoria sottostante alcuni provvedimenti, evidenziando l'importanza di una base istruttoria solida e di una motivazione chiara per garantire la legittimità degli atti ispettivi.
La nota dell'ispettorato 4539/2020 sul potere di disposizione
L’Ispettorato nazionale del lavoro nella nota n. 4539 del 15 dicembre 2020, ha fornito alcuni chiarimenti sull'applicazione del potere di disposizione degli ispettori, modificato dal Decreto legge 76/2020 che sostituiva il precedente articolo 14, D.Lgs. 124/2004.
Facendo seguito alla prima circolare sul tema , n. 5 2020, l'ispettorato raccomandava che la disposizione dell'ispettore sia basata su una valutazione complessiva della fattispecie oggetto di accertamento, per garantire al lavoratore una effettiva tutela.
La disposizione va evitata comunque nei casi in cui anche se consentita, possa determinare effetti sfavorevoli nei confronti di altri lavoratori.
La nota specifica che il potere di disposizione si applica nei casi in cui non siano previste specifiche sanzioni penali e amministrative per le violazioni rilevata nel corso delle ispezioni in materia di lavoro e legislazione sociale.
Per quanto riguarda la violazione o errata applicazione di obblighi contrattuali , secondo la nota va fatto riferimento non solo al Ccnl di settore ma anche a quello effettivamente applicato dal datore di lavoro v. circolare INL n. 5/2020) .
Invece per quanto riguarda le violazioni legate alla parte normativa ed economica del Ccnl va escluso il riferimento alla parte obbligatoria dei Ccnl (circolari INL n. 9/2019 e n. 2/2020) fatte salve le ipotesi già valutate positivamente e riportate in allegato.
La previsione di una sanzione civile non esclude l’applicabilità del provvedimento di disposizione.
L’adozione della disposizione va invece esclusa nei casi di obblighi che trovano la loro fonte in via esclusiva in una scelta negoziale delle parti.
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Reato la mancata risposta all’ Ispettorato del lavoro
Con la sentenza 5992 del 12.2.2024 la Cassazione torna sul tema della mancata risposta a richieste di informazioni effettuate dall'ispettorato del lavoro e ribadisce che l'omissione da parte del datore di lavoro costituisce reato ex art. 4 della legge n. 628/1961 sia per dolo che per colpa.
Si ricorda che in materia si era già espressa pochi anni fa specificando le modalità di calcolo deI termine di prescrizione per una violazione simile .
Vediamo di seguito i dettagli sui due casi.
Reato di mancata risposta a richiesta via pec dell’INL
Il caso riguardava l'amministrazione unico di una società che a seguito di richieste dell'ispettorato del lavoro prima via Pec e poi tramite raccomandata, non aveva fornito la documentazione richiesta, inerente i rapporti di lavoro instaurati con una dipendente, impedendo di fatto lo svolgimento dell'attività di vigilanza.
Il ricorrente era stato condannato dal Tribunale al pagamento di una ammenda di 300 euro ( con pena sospesa ai sensi dell'art. 164, comma primo, cod. pen.), e ricorreva in Cassazione .
Nella difesa affermava di non essere venuto a conoscenza delle richieste avanzate dall'Ispettorato del Lavoro in quanto la raccomandata giunta in data 23 settembre 2020 era stata consegnata al portiere dello stabile, e non era stata poi inviata la c.d. raccomandata informativa, contenente l'avviso di deposito, contrariamente a quanto considerato obbligatorio da una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione.
Inoltre l'invio precedente a una casella di posta elettronica certificata non aveva , in quanto era stata sottoposta a sequestro nell'ambito di un altro procedimento penale concernente reati tributari a far data dal 15/07/2020 e comunque inoltrata alla società – e non all'amministratore e rappresentante legale.
La Cassazione nella sentenza evidenzia invece come l'esame dei fatti sia emerso che il ragioniere della società aveva affermato dì essere venuto a conoscenza della richiesta, proveniente dall'Ispettorato del lavoro via Pec alla società, ma tuttavia di non aver mai esibito la documentazione richiesta
poiché essa si trovava in locali non più in possesso della società.
Ciò dimostra che il rappresentante legale, amministratore unico della società, era pienamente nella condizione di conoscere la richiesta dell'INL e avrebbe potuto e dovuto semplicemente fornire risposta circa l'impossibilità di fornire la documentazione , spiegandone le ragioni.
Si evidenzia dunque perlomeno la violazione del dovere di diligenza dell'amministratore.
La Suprema Corte precisa infatti che il reato ha natura di contravvenzione per la quale rilevano sia il dolo che la colpa, che sono titoli soggettivi dell’imputazione.
Reato di mancata risposta a INL: la prescrizione
Nella sentenza 43702/2019 della Corte di Cassazione era stato inoltre affermato che la mancata risposta a richieste di informazioni da parte dell'Ispettorato del lavoro a seguito di accertamenti è reato "permanente" con termini di prescrizione prolungati ovvero che decorrono dalla data della sentenza di primo grado, non dal momento della commissione del reato stesso .
Il caso riguardava il legale rappresentante di una società di capitali, che aveva omesso di consegnare alla Direzione territoriale del lavoro notizie e documenti che gli erano stati legalmente richiesti in data 6 settembre 2013; anch' egli condannato alla relativa pena pecuniaria prevista dall'articolo 4 della legge 628/1961 . La sentenza di primo grado aveva specificato che per il reato la prescrizione sarebbe scattata a novembre 2019 mentre la difesa nel ricorso in Cassazione affermava che il reato era già prescritto al 26 settembre 2018, a cinque anni dal termine per la consegna della documentazione richiesta, decorso inutilmente.
La Cassazione rigetta il ricorso e conferma l'interpretazione dei giudici di merito in tema di prescrizione di questo reato.
Si sottolinea che il reato si realizza in due forme:
- forma “commissiva”, quando il destinatario della richiesta, risponda con notizie o informazioni e documentazione diverse da quelle richieste, o
- in forma “omissiva” quando viene omessa la risposta
In questo secondo caso i giudici della Suprema corte affermano che si configura un reato permanente, che si protrae fino a quando non intervenga il soddisfacimento della richiesta oppure fino alla notificazione del decreto penale di condanna ovvero fino alla sentenza di primo grado, ed è solo da quella data che scattano i termini per la prescrizione.
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Contratti a termine: approvata la deroga fino al 31 dicembre 2024
Il decreto-legge Lavoro 48 2023 ha modificato la normativa sui contratti a tempo determinato ampliando le causali da apporre per una durata fino a 24 mesi, che si conferma limite massimo, comprensivo di proroghe e rinnovi. Era stato anche rivisto il metodo di calcolo dei lavoratori in somministrazione concesso in rapporto al totale dei dipendenti .
Il 9 ottobre 2023 il Ministero del lavoro ha pubblicato sul proprio sito una circolare di chiarimenti n. 9 2023 che ripercorre le novità e fornisce alcune utili indicazioni (vedi tutti i dettagli nei paragrafi successivi).
Nel corso della conversione in legge del Decreto Milleproroghe 215/2023 è stato presentato un emendamento dalle forze di maggioranza che prevede dal proroga dal 30 aprile al 31 dicembre 2024 della scadenza per la stipula degli accordi individuali tra le parti per i rinnovi e le proroghe oltre i 12 mesi
L’onorevole Nisini, prima firmataria, ha spiegato che si intende in questo modo andare incontro alle richieste dei datori di lavoro che visto il mancato rinnovo di numerosi contratti collettivi ai quali il decreto lavoro aveva affidato l'onere di dettagliare ulteriori causali specifiche per ciascun settore produttivo, rischierebbero a breve di vedere interrotti molti rapporti di lavoro a tempo determinato.
Il testo della legge di conversione del è stato approvato ieri in via definitiva dal Senato per cui la novità sulla proroga è definitiva. Si attende ora la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto convertito
Contratto a termine: causali e durata dal 5.5.2023
A partire dal 5 maggio 2023, data di entrata in vigore del decreto le clausole che consentono una durata superiore ai 12 mesi e/o eventuali proroghe sono in particolare:
- casi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e o rappresentanza sindacale unitaria o, in mancanza di specificazioni, contrattuali, oppure
- SOLO per i contratti stipulati entro il 30 aprile 2024 l'indicazione di una causale connessa a esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva concordata tra le parti dell'accordo individuale ovvero datore di lavoro e dipendente.
Il ministero spiega che in questo modo si consente "alle Parti sociali di adeguare alla nuova disciplina i contratti collettivi sopra richiamati, le cui previsioni costituiscono fonte privilegiata in questa materia."
Importante inoltre il chiarimento che "Tale data è da intendersi come riferita alla stipula del contratto di lavoro, la cui durata, pertanto, potrà anche andare oltre il 30 aprile 2024."
il Ministero analizza inoltre il fatto che quest'ultima specifica deroga di un anno , oltre alle causali aziendali individuali , introduce l'azzeramento del computo dei mesi di contratto già svolto.
Quindi per i contratti stipulati a partire dal 5 maggio 2023 non si conteggiano i periodi di lavoro (sia contratti che rinnovi) già intercorsi in precedenza tra il datore di lavoro e lo stesso dipendente.
Resta fermo pero il limite massimo di 24 mesi complessivi
Riguardo invece alle causali indicate dai CCNL per i rapporti oltre i 12 mesi la circolare ricorda che la norma conferma le regole previgenti che affidano il compito alla contrattazione , a tutti i livelli, siglata dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative il compito di individuare tali casi.
Viene anche chiarito un punto dolente della riforma del decreto Lavoro sul fatto che gli accordi individuali previsti per i periodo di 1 anno, fino al 30 aprile 2024 possano entrare in conflitto con le regole generali.
Vengono quindi fornite le seguenti indicazioni:
- nell’ipotesi in cui nei contratti collettivi sia tuttora presente un mero rinvio alle fattispecie legali di cui al decreto-legge "Dignità" 12 luglio 2018,n. 87, le stesse potranno ritenersi implicitamente superate dalla nuova disciplina per cui si possibilità di ricorso ai contratti collettivi applicati in azienda o, esclusivamente fino al 30 aprile 2024, all’esercizio dell’autonomia delle parti
- invece, nel caso in cui nei contratti collettivi sopra citati siano presenti causali introdotte in attuazione del regime di cui al previgente articolo 19, comma 1, lettera b-bis) introdotto dal decreto-legge n. 73 del 2021 -, data la sostanziale identità di tale previsione con le specifiche esigenze previste dai contratti collettivi cui fa riferimento il nuovo articolo 19, comma 1, lett. a), le suddette condizioni potranno continuare a essere utilizzate per il periodo di vigenza del contratto collettivo.
- Ugualmente , restano utilizzabili le causali introdotte da qualsiasi livello della contrattazione collettiva (come definita dal più volte richiamato articolo 51 del d.lgs. n. 81 del 2015) che individuino concrete condizioni per il ricorso al contratto a termine, purché non si limitino ad un mero rinvio alle fattispecie legali di cui alla previgente disciplina, ormai superata.
Quanto alle esigenze sostitutive, il ministero evidenzia che resta fermo l’onere per il datore di lavoro di precisare nel contratto le ragioni concrete alla base della sostituzione.
Contratti a tempo determinato e contratti di somministrazione novità 2023
Come ultimo punto vengono riepilogate le novità in materia di somministrazione previste dall’art. 24 comma 1-quater del DL 48/2023
In primo luogo, nel limite del 20 per cento del lavoro a termine non rilevano i lavoratori somministrati assunti dall’agenzia di somministrazione con
contratto di apprendistato.
Si escludono espressamente i limiti quantitativi per la somministrazione a tempo indeterminato di alcune categorie di lavoratori, tassativamente individuate, tra cui:
- i soggetti disoccupati che fruiscono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali
- i lavoratori svantaggiati ovvero
a) privi di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi;
b) di un’età compresa tra i 15 e i 24 anni;
c)privi di diploma di scuola media superiore o professionale (livello ISCED 3) o abbiano completato la formazione a tempo pieno da non più di due anni e non abbiano ancora ottenuto il primo impiego regolarmente retribuito;
d) oltre i 50 anni di età;
e) adulti che vivono soli con una o più persone a carico;
f) occupati in professioni o settori caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che supera almeno del 25% la disparità media uomo-donna in tutti i settori economici se il lavoratore i appartiene al genere sottorappresentato;
g) appartenenti a una minoranza etnica di uno Stato membro UE e con necessità di migliorare la propria formazione linguistica e professionale o la propria esperienza lavorativa per aumentare le prospettive di accesso ad un'occupazione stabile.
- e i lavoratori molto svantaggiati che sono i soggetti privi da almeno ventiquattro mesi di un impiego regolarmente retribuito e quelli che, privi da almeno dodici mesi di un impiego regolarmente retribuito, appartengono a una delle categorie indicate dalle lettere da b) a g).
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Licenziamento e obbligo di repechage: chiarimenti dalla Cassazione
La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 2739 del 30 gennaio 2024, ha affermato che è illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un dipendente in mancanza di una proposta di reinserimento anche se con un inquadramento inferiore .
I giudici nella pronuncia chiariscono inoltre su chi grava l'onere della prova sulle effettive possibilità di assegnazione a un diverso ruolo in azienda. Vediamo maggiori dettagli e altri casi , con orientamenti anche opposti sullo stesso tema.
Licenziamento illegittimo e onere di dimostrare l’assenza di altri posti assegnabili
La recente sentenza n. 2739 del 2024 riguardava il licenziamento di una centralinista che opponeva ricorso, respinto dalla Corte di Appello di Roma con la motivazione che “da un lato, l’introduzione del sistema automatico di risposta telefonica, era stato posto legittimamente dalla società quale elemento organizzativo produttivo integrante l’ipotesi di motivo oggettivo del licenziamento intimato, posto che, all’evidenza l’attività di smistamento delle telefonate è divenuta per la società non più proficuamente utilizzabile e, dall’altro, che le mansioni residuali ben potessero essere redistribuite all’interno dell’Ufficio”;
Sull’adempimento dell’obbligo del repêchage”, la Corte ha affermato che, “se e vero che l`onere probatorio della impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni
– anche diverse purché equivalenti a quelle precedentemente svolte – spetta al datore di lavoro, è anche vero che, trattandosi di prova negativa da fornire con prove presuntive , spettava alla dipendente evidenziare le possibilità di diversa assegnazione in azienda " ponendo in tal modo la parte datoriale nella condizione di poter dimostrare concretamente per quale motivo l’inserimento del lavoratore nelle posizioni lavorative evidenziate non era praticabile”. In questo modo la Corte ha ritenuto provata “la impossibilità di utilizzare la lavoratrice in un altro settore con mansioni equivalenti”.
Il giudizio di Cassazione non conferma questa lettura e cassa la sentenza . In particolare viene specificato che:
- l’affermazione dei giudici d’appello secondo cui incomberebbe sul lavoratore un onere dimostrare l'esistenza di un lavoro in cui potrebbe essere utilmente adibito” contrasta con una oramai consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo la quale spetta invece al datore di lavoro dare prova dell'impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (come nella sentenza di Cass. n. 5592 del 2016)- vedi sotto una pronuncia in senso opposto);
- In secondo luogo i giudici territoriali hanno errato nel considerare che l’impossibilità di ricollocare il lavoratore da licenziare sia limitato alla possibilità che quest’ultimo possa svolgere mansioni comunque equivalenti a quelle precedentemente espletate. La giurisprudenza di legittimità ha infatti ormai piu volte affermato che l’indagine va estesa anche all’impossibilità di svolgere mansioni anche inferiori (da ultimo v. Cass. n. 31561 del 2023
Già con la sentenza delle Sezioni Unite è stato sancito il principio per il quale si considera preponderante per il lavoratore il mantenimento del posto di lavoro, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto; il principio, originariamente affermato in caso di sopravvenuta infermità permanente, è stato poi esteso anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovute a soppressione del posto di lavoro in seguito a riorganizzazione aziendale (Cass. n. 21579 del 2008; Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019; Cass. n. 31520 del 2019).
Repechage anche per collocazioni future
Si segnalano in tema di obbligo di repechage alcune sentenze che approfondiscono ulteriori aspetti.
Ad esempio nella sentenza 12132/2023 la Cassazione ha ampliato l'ambito di applicabilità dell'obbligo di repechage da rispettare prima del licenziamento di un lavoratore per giustificato motivo oggettivo, affermando che sulla base del principio di correttezza e buona fede obbligatori nel rapporto di lavoro, la situazione aziendale al momento del licenziamento non è il solo ambito in cui valutare le disponibilità di mansioni affidabili al dipendente ma vanno considerati anche posti che si renderanno disponibili in un arco temporale del tutto prossimo»
Nel caso analizzato dalla cassazione al momento del licenziamento del ricorrente erano infatti state rassegnate le dimissioni da due lavoratori che erano nel periodo di preavviso. Questo deponeva secondo la suprema Corte per un possibile futuro ricollocamento a breve del lavoratore e per la conseguente illegittimità del licenziamento.
Onere della prova anche sul lavoratore per la Cassazione 18416 2013
Diversamente dalla sentenza piu recente la Cassazione 1 agosto 2013, n. 18416 ha stabilito che l'onere probatorio circa l'effettiva sussistenza del motivo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo addotto dal datore di lavoro grava interamente sullo stesso, il quale deve dimostrare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte.
Tuttavia tale prova non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell'accertamento di un possibile repechage, mediante l'allegazione di una lista di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l'onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti.
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Licenziamenti collettivi: la Consulta conferma la disciplina del Jobs act
Con la pronuncia n. 7 del 22 gennaio 2024 la Corte costituzionale ha riaffermato la legittimità delle norme sull'applicabilità e l'importo degli indennizzi in caso di licenziamenti collettivi illegittimi, contenute nel Dlgs 23/2015 , attuativo della legge delega 183 2014 , il cd Jobs Act del Governo Renzi.
Vediamo in dettaglio il contenuto e le conseguenze della decisione
Legittimità costituzionale della disciplina sui licenziamenti collettivi: i dubbi della Corte di Appello
La questione era stata sollevata dalla Corte d’appello di Napoli, sezione lavoro, in particolare sugli artt. 3, comma 1, e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 nel corso del giudizio di impugnazione del licenziamento, ad una lavoratrice assunta in data 1° maggio 2016, a conclusione di una procedura di licenziamento collettivo per «riduzione del personale»
La Corte rimettente aveva dichiarato con sentenza parziale l’illegittimità dell’impugnato licenziamento per violazione dei criteri di scelta, e aveva disposto la prosecuzione del giudizio ai soli fini dell’individuazione delle conseguenze sanzionatorie, ricordando che per la lavoratrice assunta dopo il 7 marzo 2015, il decreto 23 2015 prevede , l’estinzione del rapporto e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale «in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità»
Il giudice esprimeva quindi dubbi in particolare sui seguenti aspetti
- legittimità costituzionale dell’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, in quanto avrebbe modificato la disciplina sanzionatoria per la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero nell’ambito di un licenziamento collettivo, pur in assenza di una specifica delega , con un intervento eccedente in quanto nella legge delega si faceva riferimento a modifiche in tema di " licenziamenti economici" e non ai licenziamenti collettivi, che rientrerebbero invece in un "corpo normativo unitario e completo,autonomamente disciplinato."
- In secondo luogo, il giudice evidenziava il contrasto dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, con gli artt. 3, 4, 24, 35 e 111 Cost., nella parte in cui, per la stessa violazione dei criteri di scelta, disporrebbe, irragionevolmente, una sanzione per i soli lavoratori assunti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015. I dubbio riguardava in particolare il fatto di assoggettare il datore a regimi sanzionatori disomogenei, sulla base dell'anzianità dei lavoratori , per una invece identica violazione dei criteri di scelta che viene viene riparata :
- con la reintegra del rapporto di lavoro eprevidenziale per i lavoratori assunti a tempo indeterminato fino al 7 marzo 2015, ed
- solo con un indennizzo forfettario, basato su una nozione di retribuzione, non onnicomprensiva ed inadeguata ad assicurare il ristoro effettivo del danno subito ovvero l'illegittima perdita del posto di lavoro , per i lavoratori assunti successivamente.
infine in presenza di una violazione di parametri selettivi oggettivi e solidaristici, l'indennizzo forfettizzato non costituirebbe un "affievolimento del ristoro del pregiudizio causato tanto da non garantire una sanzione efficace ed effettiva in caso di violazione dei criteri di scelta".
La pronuncia della Consulta sugli indennizzi per licenziamento illegittimo
La Corte costituzionale nella pronuncia ripercorre tutto il quadro normativo e afferma invece il disaccordo sui tre profili di non manifesta infondatezza delle norme in questione, precisando che
- sull' eccesso di delega delle norme riferite ai licenziamenti collettivi la Consulta ritiene che il termine utilizzato nella legge "licenziamenti economici" in quanto atecnico può essere utilizzato in senso onnicomprensivo per includere, sia la categoria dei licenziamenti individuali “economici”…sia i licenziamenti collettivi con riduzione di personale per “ragioni di impresa”, che sono di fatto anch' essi “economici”»
- Sulla violazione del principio di eguaglianza di trattamento per la stessa violazione verso i lavoratori, la Consulta ricorda la giurisprudenza precedente per la quale «non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche» e non ritiene quindi illegittima la disciplina introdotta del dlgs 23 2015.
- Infine a Corte costituzionale ritiene adeguata l'indennità di risarcimento individuata dal decreto (che va da 4 a 36 mensilità di retribuzione) in quanto non contrasta il principio di "adeguato contemperamento degli interessi in conflitto".
La corte in conclusione indirizza al legislatore l'invito ad intervenire nella disciplina attuale,estremamente complessa , solo con interventi complessivi volti a semplificare pur rispettando sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, rispettando sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie». pronuncia n. 7 del 22 gennaio 2024