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Impatriati autonomi soggetti al “de minimis”: cosa cambia
Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, nella persona del sottosegretaria Lucia Albano ha chiarito in modo definitivo alla Camera in una risposta a interrogazione parlamentare scritta del 25 novembre 2025 che i lavoratori autonomi che applicano il regime impatriati devono rispettare le regole sugli aiuti di Stato “de minimis”. Si tratta di una condizione essenziale prevista dal combinato disposto dell’articolo 8-bis del Dl 148/2017 e dell’articolo 5 del Dlgs 209/2023.
Secondo il regolamento UE 1407/2013, ha confermato il MEF, sia le imprese individuali come i professionisti – non possono ricevere più di 200.000 euro di aiuti “de minimis” nell’arco di tre esercizi finanziari. La risposta specifica che " l’applicazione della normativa unionale in materia di aiuti di importanza minore a misure nazionali ricade nella responsabilità degli Stati membri, non essendo richiesta alcuna preventiva qualificazione dell’intervento da parte della Commissione europea".
Si ricorda tra l'altro che dal 2024 la soglia europea è stata innalzata a 300.000 euro dal regolamento UE 2831/2023, ma il legislatore italiano continua a richiamare il regolamento precedente, mantenendo quindi per il momento la soglia da 200.000 euro ai fini del regime impatriati ma alimentando dubbi interpretativi che hanno richiesto il nuovo chiarimento.
Regime de minimi per gli impatriati: come si applica
Il Ministero ha ribadito anche un aspetto tecnico : il triennio da valutare è “mobile”, non “fisso”. Ciò significa che a ogni nuovo aiuto occorre verificare gli aiuti ricevuti nei tre anni precedenti, non in un triennio solare o predeterminato.
Per i professionisti che negli ultimi anni hanno aderito ad altri strumenti agevolativi, questo controllo può rivelarsi determinante anche per evitare il recupero totale delle imposte
La risposta ministeriale ha dunque ricollocato il regime impatriati all’interno della disciplina generale degli aiuti minori, negando l’idea – diffusa tra molti contribuenti, anche per la mancanza di adeguati rimandi nel testo della legge – che la detassazione potesse essere fruita automaticamente senza verifiche pregresse.
Onere del professionista e rischio restituzione
L'Interrogazione evidenziava anche l'ulteriore problema legato al fatto che alcuni uffici dell’Agenzia delle Entrate stanno contestando ai professionisti che superano il plafond, non solo l’eccedenza, ma l’intera agevolazione, ritenendo che il beneficio cada integralmente .
Si tratta di un tema ancora dibattuto, anche perché il regolamento UE 1407/2013 non prevede espressamente la perdita totale dell’agevolazione. A complicare le cose anche il funzionamento tecnico del Registro aiuti che ha portato all’impossibilità di utilizzare correttamente l'istituto del ravvedimento operoso per l'anno in cui si applica il regime agevolato.
Il Ministero quindi, con la conferma del vincolo “de minimis”, ha ribadito che l’onere di verifica preventiva è a carico del contribuente, e che la mancanza di spazio nel plafond rende comunque illegittima la fruizione.
Gli onorevoli interroganti , dopo la risposta hanno comunque evidenziato che malgrado la precisione formale della risposta del sottosegretario , resta aperta la discussione sull’opportunità di dare la giusta diffusione in forma ufficiale anche su questo aspetto per evitare che un errore materiale comporti un recupero particolarmente oneroso per i professionisti.
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Rimborso Impatriati anche con dichiarazione integrativa, dice la Cassazione
Con l’ordinanza n. 30569 del 20 novembre 2025 , la Corte di Cassazione affronta nuovamente il tema dell’accesso all’agevolazione prevista dall’articolo 16 del D.Lgs. 147/2015, nota come regime degli “impatriati”. La pronuncia assume particolare rilievo per i datori di lavoro e i consulenti fiscali che, in qualità di sostituti d’imposta, gestiscono l’applicazione del beneficio in busta paga o verificano la correttezza delle istanze di rimborso presentate dai lavoratori rientrati in Italia.
Il caso riguarda il diritto al rimborso IRPEF per annualità pregresse in caso di omissione della richiesta al datore di lavoro e di presentazione di una dichiarazione integrativa oltre i termini ordinari previsti dall’articolo 2 del D.P.R. 322/1998. La Suprema Corte, richiamando la propria giurisprudenza e le indicazioni dell’Agenzia delle Entrate (circolare 14/E/2012), chiarisce in modo definitivo la portata della normativa, distinguendo tra opzione tramite sostituto d’imposta e diritto autonomo del contribuente a richiedere il rimborso.
Il caso rimborso per piu annualità diniego parziale dall’agenzia
Il contribuente, rientrato in Italia nel 2016, aveva richiesto nella propria dichiarazione dei redditi il rimborso delle maggiori imposte versate dal datore di lavoro, qualificabili come eccedenze derivanti dal regime degli impatriati. L’istanza riguardava gli anni d’imposta dal 2016 al 2020. L’Agenzia delle Entrate riconosceva il rimborso solo per il triennio 2018-2020, negando invece le somme relative al 2016 e 2017, poiché indicate in una dichiarazione integrativa trasmessa tardivamente nel 2020.
Il contribuente presentava quindi istanza di rimborso e, decorso il termine di 90 giorni, impugnava il silenzio-rifiuto dinanzi alla giustizia tributaria.
La Corte di giustizia tributaria di primo grado respingeva il ricorso, ritenendo che l’agevolazione non fosse più fruibile a causa della mancata richiesta al datore di lavoro e della tardività della dichiarazione integrativa.
In appello, la Corte di secondo grado riformava integralmente la decisione, rilevando che nessuna norma prevede la decadenza dal regime per le ipotesi contestate dall’Ufficio. L’Agenzia delle Entrate proponeva quindi ricorso per cassazione, sostenendo che il beneficio può essere esercitato solo attraverso:
a) richiesta scritta al datore di lavoro;
b) opzione nella dichiarazione dei redditi presentata entro i termini previsti dall’articolo 2, comma 8-bis del D.P.R. 322/1998.
Secondo l'interpretazione dell’Ufficio, la richiesta avanzata solo con la dichiarazione integrativa tardiva non consente la fruizione dell’agevolazione per gli anni 2016-2017.
Le motivazioni della giustizia tributaria e della Cassazione
La Corte di giustizia tributaria di secondo grado aveva riconosciuto il diritto al rimborso, evidenziando che:
- il legislatore non prevede alcuna decadenza dal beneficio in caso di mancata attivazione tramite sostituto d’imposta;
- la presentazione di una dichiarazione integrativa tardiva non incide sulla possibilità di richiedere autonomamente il rimborso ai sensi dell’articolo 38 del D.P.R. 602/1973.
La Suprema Corte conferma l’impianto argomentativo dei giudici di merito e rigetta il ricorso dell’Agenzia delle Entrate. Afferma infatti che:
- l’articolo 16 del D.Lgs. 147/2015, nella versione applicabile al periodo considerato, non prevede alcun termine decadenziale che limiti la possibilità di chiedere il rimborso;
- il divieto di rimborso introdotto dal comma 5-ter dell’articolo 16 (inserito dal D.L. 34/2019, conv. L. 58/2019) è successivo ai periodi in contestazione e non applicabile retroattivamente;
- le istruzioni dell’Agenzia delle Entrate contenute nella circolare 14/E/2012 confermano che, in via residuale, il contribuente può sempre presentare un’istanza di rimborso ai sensi dell’articolo 38 del D.P.R. 602/1973, producendo la documentazione idonea a dimostrare la spettanza dell’agevolazione;
- la tardività della dichiarazione integrativa non comporta la perdita del beneficio, ma solo la mancata possibilità di attivare la procedura tramite sostituto d’imposta.
La Corte richiama inoltre precedenti conformi (ad es. Cass. 34655/2024 e Cass. 15234/2025), ribadendo che il mancato rispetto del termine previsto per esercitare l’opzione non comporta decadenza dal regime, bensì la semplice necessità per il contribuente di attivarsi direttamente per ottenere il rimborso.
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Lavoratori in più Stati: soglia 25% per le norme del paese di residenza
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con sentenza del 4 settembre 2025 (causa C-203/24), è tornata a pronunciarsi sulla complessa questione della legislazione previdenziale applicabile ai lavoratori che operano in più Stati membri.
Il caso riguardava un lavoratore residente nei Paesi Bassi, impiegato su una nave che navigava tra diversi Paesi europei, con un’attività inferiore al 25% nel proprio Stato di residenza.
L’ente previdenziale olandese aveva ritenuto applicabile la legislazione nazionale, considerando non solo il tempo di lavoro svolto nei Paesi Bassi, ma anche elementi collaterali come la residenza del lavoratore e la registrazione della nave.
La controversia è arrivata sino alla Corte suprema dei Paesi Bassi, che ha chiesto alla Corte di Giustizia di chiarire la nozione di “parte sostanziale dell’attività” ai fini della determinazione della normativa di sicurezza sociale.
Regolamento e UE e decisione della Corte
La disciplina di riferimento è data dal Regolamento (CE) n. 883/2004, che coordina i sistemi nazionali di sicurezza sociale nell’Unione, e dal Regolamento (CE) n. 987/2009, che ne specifica le modalità applicative. In particolare, l’articolo 13 del primo stabilisce che, se un lavoratore svolge un’attività in più Stati membri, è soggetto alla legislazione dello Stato di residenza solo qualora vi eserciti una “parte sostanziale” della sua attività.
L’articolo 14 del regolamento applicativo precisa che tale valutazione deve basarsi sui criteri dell’orario di lavoro e/o della retribuzione, individuando nella soglia del 25% il limite quantitativo minimo.
La Corte ha confermato che tale percentuale rappresenta un requisito vincolante: se il lavoratore non raggiunge almeno il 25% della propria attività nello Stato di residenza, non si può considerare applicabile la legislazione di quel Paese. È stato chiarito che altri elementi, come la residenza anagrafica, il luogo di registrazione della nave o la sede legale del datore di lavoro, non possono supplire al mancato raggiungimento della soglia. Inoltre, la valutazione deve proiettarsi sui dodici mesi successivi, secondo quanto previsto dall’articolo 14, paragrafo 10, del regolamento n. 987/2009.
Lavoro transfrontaliero con il 25% norme del paese di residenza
La decisione ha conseguenze rilevanti anche per l’Italia, in quanto gli enti previdenziali nazionali (INPS e INAIL) sono spesso coinvolti nella gestione di casi transfrontalieri, specialmente nei settori della logistica, dei trasporti e della navigazione. La sentenza rafforza l'obbligo di una verifica oggettiva basata su dati misurabili — ore lavorate e retribuzione percepita — senza possibilità di ampliare l’analisi a criteri discrezionali.
Per i datori di lavoro e i consulenti italiani ciò significa che, qualora un dipendente operi in più Stati, sarà determinante monitorare la quota effettiva di attività svolta in Italia.
L’obbligo di rispettare la soglia del 25% consente di prevenire conflitti di legislazione e garantisce l’applicazione uniforme delle norme europee. Ne deriva un indirizzo chiaro per i casi futuri: i lavoratori che non raggiungono il livello minimo nello Stato di residenza saranno assoggettati alla legislazione del Paese in cui ha sede il datore di lavoro. Per l’Italia, questo orientamento potrà tradursi in una riduzione dei margini di incertezza interpretativa e in una gestione più lineare delle certificazioni A1, con effetti concreti sulla contribuzione previdenziale e sull’assicurazione sociale.
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Rimborso IRPEF Impatriati: quando non serve la richiesta
La Cassazione affronta ancora una volta nella sentenza n. 23656 del 19 agosto 2025 il tema del recupero di imposte erroneamente versate da un lavoratore soggetto al regime agevolato per gli "Impatriati".
Un lavoratore trasferitosi in Italia aveva richiesto all’Agenzia delle Entrate il rimborso delle maggiori imposte versate per l’anno 2018, sostenendo di avere diritto alle agevolazioni fiscali anche se in assenza di preventiva richiesta al datore di lavoro.
Formatasi la situazione di silenzio-rifiuto, il contribuente aveva adito la Commissione tributaria provinciale di Milano, che aveva accolto il ricorso annullando il diniego tacito dell’Amministrazione e disponendo il rimborso.
La decisione era stata confermata in appello dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia con sentenza n. 297/2024.
Contro tale pronuncia l’Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso per cassazione, contestando l’interpretazione offerta dai giudici di merito.
Le argomentazioni dell’Agenzia delle Entrate e il quadro normativo
Nel ricorso l’Amministrazione finanziaria sosteneva che il contribuente non avesse diritto al rimborso, non avendo presentato né la richiesta scritta al datore di lavoro per l’applicazione delle agevolazioni, né l’opzione in sede di dichiarazione dei redditi.
L’Agenzia richiamava la natura eccezionale del regime agevolativo introdotto dall’art. 16 del D.Lgs. n. 147/2015 e la necessità di rispettare puntuali adempimenti formali. A suo avviso, in assenza di tali adempimenti, non sarebbe stato possibile riconoscere benefici fiscali.
La Corte di Cassazione ha però ricordato che, prima dell’introduzione del comma 5-ter all’art. 16 del D.Lgs. n. 147/2015 ad opera del D.L. n. 34/2019 (c.d. “Decreto Crescita”), non esisteva alcuna norma che vietasse espressamente il rimborso delle somme spontaneamente versate.
La disposizione sopravvenuta non ha efficacia retroattiva, come chiarito dalla stessa legge di conversione n. 58/2019, e dunque non può essere applicata a situazioni riferite ad annualità precedenti.
La decisione della Cassazione: niente retroattività
Come anticipato la Cassazione ha respinto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, confermando la legittimità della pronuncia dei giudici tributari lombardi.
La sentenza ribadisce che l’omessa presentazione della richiesta al datore di lavoro o l’assenza di opzione in dichiarazione non determinano la decadenza dal beneficio per gli impatriati, in mancanza di una previsione legislativa esplicita in tal senso.
Per le annualità anteriori al 2019, quindi, i lavoratori che hanno i requisiti possono legittimamente presentare istanza di rimborso ai sensi dell’art. 38 del D.P.R. n. 602/1973, allegando la documentazione idonea.
La Corte ha inoltre condannato l’Amministrazione al pagamento delle spese di giudizio.
Questa pronuncia si inserisce nel solco di precedenti orientamenti (ordinanze nn. 34655/2024 e 15234/2025), rafforzando il principio secondo cui le limitazioni introdotte dal legislatore non hanno efficacia retroattiva.
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Residenza estera e risparmio amministrato: i chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate
Con la Risposta a interpello n. 208 del 2025, l’Agenzia delle Entrate ha fornito chiarimenti in merito alla possibilità, per un contribuente che trasferisce la propria residenza fiscale all’estero, di continuare a usufruire del regime del risparmio amministrato su un deposito titoli detenuto presso un intermediario italiano.
Il caso riguarda un cittadino italiano che, dal gennaio 2025, si è trasferito in Thailandia iscrivendosi all’AIRE e ottenendo un visto di residenza decennale, mantenendo un deposito titoli in Italia per il quale aveva già optato per il regime amministrato.
L’istante chiedeva se fosse obbligatorio il passaggio al regime dichiarativo e se tale passaggio comportasse la tassazione delle eventuali plusvalenze “latenti” sui titoli.
Il quadro normativo di riferimento
Il regime del risparmio amministrato è disciplinato dall’articolo 6 del D.Lgs. 461/1997, mentre il regime dichiarativo è regolato dall’articolo 5 dello stesso decreto.
Per i soggetti non residenti, il regime amministrato costituisce il regime naturale: l’imposta sostitutiva sulle plusvalenze è applicata direttamente dagli intermediari, anche senza esercizio dell’opzione, salvo facoltà di rinuncia con effetto dalla prima operazione successiva.La normativa prevede che l’opzione possa essere revocata entro la fine dell’anno solare con effetto dall’anno successivo e che tale revoca non costituisca evento realizzativo ai fini delle imposte sui redditi. Pertanto, il semplice passaggio da regime amministrato a dichiarativo non genera tassazione sulle plusvalenze maturate e non realizzate.
Il chiarimento dell’Agenzia delle Entrate
Nel rispondere all’interpello, l’Agenzia ha precisato che il contribuente, anche dopo il trasferimento all’estero, può continuare a mantenere il deposito titoli in regime di risparmio amministrato, senza obbligo di passaggio al regime dichiarativo.
In caso di volontaria revoca dell’opzione, l’operazione resta fiscalmente neutra: le eventuali plusvalenze latenti non vengono tassate fino alla loro effettiva realizzazione mediante cessione o rimborso dei titoli.
Resta comunque ferma la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di effettuare controlli per verificare la corretta qualificazione fiscale della fattispecie in base agli elementi di fatto.
Implicazioni pratiche per i contribuenti non residenti
Questo chiarimento è particolarmente rilevante per i cittadini italiani che si trasferiscono all’estero ma mantengono investimenti finanziari in Italia.
La conferma che il regime amministrato resta applicabile in automatico, e che il passaggio al dichiarativo è una facoltà e non un obbligo, consente di evitare adempimenti aggiuntivi e di pianificare con maggiore flessibilità la gestione del portafoglio titoli.Per chi opta per il regime amministrato, l’intermediario italiano continuerà a trattenere e versare l’imposta sostitutiva sulle plusvalenze realizzate, semplificando gli obblighi dichiarativi in Italia.
Allegati: -
Impatriati: ok al rimborso anche senza richiesta al datore
La Corte di Cassazione torna a favore del contribuente sul regime agevolato per i lavoratori impatriati, con l’ordinanza n. 15234/2025 depositata il 7 giugno. Anche in assenza di una formale richiesta al datore di lavoro, resta possibile accedere al beneficio fiscale previsto dall’art. 16 del D.Lgs. 147/2015, mediante dichiarazione dei redditi o istanza di rimborso ex art. 38 del DPR 602/73.
Il caso: agevolazione fruita in dichiarazione, contestata dal Fisco
La controversia riguardava un cittadino statunitense trasferitosi in Italia nel 2018 per lavorare come quadro. Egli aveva applicato autonomamente l’agevolazione in dichiarazione, ma l’Agenzia delle Entrate aveva contestato l’assenza di opzione esplicita nei termini indicati dal provvedimento del 31 marzo 2017.
Tuttavia, già in secondo grado (C.T. Reg. Aosta n. 28/2022), si era riconosciuto che il citato provvedimento si riferiva ai “contro-esodati” della L. 238/2010, non ai nuovi impatriati post-2015.
La posizione della Cassazione
La Cassazione ha confermato la possibilità di accedere all’agevolazione anche senza richiesta scritta al datore, valorizzando il fatto che la normativa non prevede una decadenza per omissioni formali. Viene richiamata anche la circ. 14/E/2012, secondo cui è legittima la richiesta di rimborso anche in via residuale.
La Corte afferma implicitamente che questo principio si applica anche alla disciplina ordinaria dell’art. 16, nella versione precedente al 29 aprile 2019.
In particolare, evidenzia che l’art. 3 del DM attuativo del 2016 collega la decadenza solo al mancato mantenimento della residenza per due anni, non al mancato rispetto delle prassi dell’Agenzia.
La conferma del precedente arresto 2024
La nuova ordinanza si allinea alla precedente n. 34655/2024, che aveva già legittimato il rimborso per i lavoratori in possesso dei requisiti sostanziali, anche senza domanda preventiva al datore. Tuttavia, la nuova sentenza chiarisce meglio che il divieto di rimborso previsto dal comma 5-ter dell’art. 16 riguarda solo fattispecie particolari (cittadini italiani non iscritti all’AIRE), evitando interpretazioni estensive.
La giurisprudenza di legittimità, pur tra incertezze applicative, converge quindi su un principio chiave: il regime degli impatriati è riconosciuto a chi possiede i requisiti previsti anno per anno, anche senza istanza al datore, attraverso la dichiarazione o una richiesta diretta di rimborso
. Le forme non prevalgono sulla sostanza, e ciò rafforza le tutele per i lavoratori rientrati in Italia.
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Prestito e distacco di personale: novità IVA dal 2025 secondo l’Agenzia delle Entrate
Con la Circolare n. 5/E del 16 maggio 2025, l’Agenzia delle Entrate fornisce chiarimenti operativi sull’applicazione dell’art. 16-ter del “Decreto Salva-infrazioni” (D.L. n. 131/2024), convertito dalla Legge n. 166/2024.
Il nuovo articolo ha abrogato il comma 35 dell’art. 8 della legge finanziaria 1988 (L. n. 67/1988), che escludeva dall’IVA i prestiti o distacchi di personale con mero rimborso dei costi sostenuti.
Per effetto di tale abrogazione, di fatto, anche le attività di distacco o prestito di personale effettuate a fronte di un corrispettivo pari al mero rimborso del relativo costo diventano, a partire dalle operazioni effettuate in esecuzione di contratti stipulati o rinnovati a decorrere dal 1° gennaio 2025, prestazioni di servizi rientranti nel campo di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto, al ricorrere dei presupposti ordinariamente stabiliti dalla disciplina IVA
Pertanto, a partire dai contratti stipulati o rinnovati dal 1° gennaio 2025, anche queste operazioni saranno soggette a IVA qualora ricorrano i presupposti soggettivo, oggettivo e territoriale.
La novità nasce per adeguare l’ordinamento italiano alla sentenza della Corte di Giustizia UE nella causa C-94/19 (San Domenico Vetraria).
Restano salvi i comportamenti pregressi conformi alla normativa abrogata o alla sentenza UE, se non oggetto di accertamenti definitivi. La disciplina dei contratti in essere alla fine del 2024 resta dunque quella previgente.
Quando scatta l’IVA: i requisiti soggettivo, oggettivo e territoriale
L’operazione di distacco o prestito di personale in argomento, per effetto della novella normativa, risulta essere rilevante ai fini dell’IVA al ricorrere dei requisiti soggettivi, oggettivi e territoriali normativamente previsti, che qui di seguito vediamo brevemente.
Presupposto soggettivo
L’IVA si applica se il distaccante è soggetto passivo IVA, ossia un'impresa o lavoratore autonomo. Anche gli enti non commerciali possono rientrare se svolgono attività d’impresa e impiegano il personale in tale contesto.
Esempio 1
Alfa Lombardia e Alfa Toscana – entrambe associazioni aventi natura di ente non commerciale, con cento unità di personale ciascuna – sono articolazioni territoriali della medesima organizzazione nazionale (Alfa Italia) e, pertanto, perseguono le medesime finalità istituzionali. Gli uffici amministrativi di Alfa Lombardia e di Alfa Toscana si accordano affinché la prima, che svolge esclusivamente attività istituzionale non commerciale ed è priva di un’organizzazione in forma d’impresa finalizzata all’erogazione di servizi di prestito di personale, distacchi presso la seconda, dal 1° giugno 2025 al 31 dicembre 2025, cinque unità di personale amministrativo specializzato, a fronte del pagamento, da parte di Alfa Toscana, di un importo pari al rimborso degli oneri stipendiali e contributivi. L’operazione di distacco non rientra nel campo di applicazione dell’IVA, per mancanza del presupposto soggettivo, anche laddove il personale distaccato sia impiegato da Alfa Toscana in un’attività d’impresa dalla stessa eventualmente esercitata.Presupposto oggettivo
Costituisce prestazione di servizi a titolo oneroso anche un distacco a fronte del solo rimborso costi, a patto che vi sia nesso diretto tra servizio e corrispettivo. L’importo può essere anche forfettario, inferiore o pari ai costi sostenuti. È irrilevante l’assenza di profitto.
Esempio 2
La società Beta è la capogruppo di una rete di imprese manifatturiere. Beta distacca dieci unità di personale dipendente specializzato presso la sede di Gamma, società controllata da Beta, per un periodo di due anni decorrente dal 1° marzo 2025. A fronte di tale distacco, Gamma è tenuta a corrispondere mensilmente a Beta, fino alla conclusione del periodo di distacco, un importo predeterminato in maniera forfetaria. Indipendentemente dall’ammontare dei costi mensili a carico di Beta per le dieci unità di personale, l’operazione di distacco risulta essere imponibile ai fini dell’IVA e Beta addebiterà a Gamma l’IVA dovuta con riferimento al corrispettivo predeterminato.Presupposto territoriale
La territorialità IVA segue le regole generali dell’art. 7-ter del DPR 633/1972. Se il committente è soggetto passivo stabilito in Italia, l’operazione è imponibile. Sono escluse le operazioni con soggetti non passivi domiciliati fuori dall’UE (es. organizzazioni estere non soggette ad IVA).
Esempio 3
Zeta IT, soggetto passivo IVA italiano con sede a Milano, è anche datore di lavoro di due unità di personale specializzate nell’organizzazione di eventi di beneficenza. A seguito di alcuni accordi contrattuali con due soggetti esteri non soggetti passivi di imposta, viene stabilito che:- la prima di tale unità, pur restando dislocata fisicamente presso la sede di Milano della Zeta IT, sia distaccata per il periodo 1° novembre 2025 – 31 ottobre 2026 all’associazione culturale francese Eta FR, ente di diritto privato privo di codice identificativo IVA, a fronte di un corrispettivo pattuito di importo pari al rimborso delle spese sostenute per l’unità distaccata;
- l’altra unità di personale sia distaccata, per il periodo 1° ottobre 2025 – 31 marzo 2026, alla sede di Zurigo di una organizzazione no profit svizzera, non soggetto passivo, che si occupa di beneficenza, la Theta CH, a fronte di un corrispettivo predeterminato forfetariamente.
Ai fini dell’IVA, l’operazione di cui al precedente n. 1) è territorialmente rilevante in Italia, ai sensi dell’articolo 7-ter, comma 1, lettera b), del decreto IVA. Zeta IT dovrà, pertanto, addebitare al committente francese l’IVA dovuta con riferimento al corrispettivo pattuito (rimborso delle spese), indipendentemente dal suo ammontare.
L’operazione di distacco di cui al precedente n. 2), invece, è fuori dal campo di applicazione dell’IVA per mancanza del presupposto territoriale, ai sensi dell’articolo 7-septies, comma 1, lettera e), del decreto IVA (l’organizzazione Theta CH non è un soggetto passivo ai fini dell’IVA ed è domiciliata fuori dell’Unione europea). Zeta IT sarà comunque tenuta a emettere fattura per l’importo predeterminato forfetariamente con l’annotazione “operazione non soggetta ad IVA”, ai sensi dell’articolo 21, comma 6-bis, lettera b)34, del decreto IVA.
Allegati: