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Accertamento induttivo sui conti correnti bancari dei professionisti: principio Cassazione
Con Ordinanza 23 agosto 2025, n. 23741, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul tema delicato dell’accertamento induttivo sui conti correnti bancari dei professionisti.
Il fulcro della controversia è la deducibilità dei costi in presenza di versamenti ritenuti compensi non dichiarati.
La Corte ribadisce un principio ormai consolidato: anche in caso di accertamento basato su presunzioni, l’Agenzia delle Entrate deve considerare una quota di costi deducibili per rispettare il principio di capacità contributiva.
Vediamo il dettaglio del caso di specie.
Deducibilità dei costi in presenza di versamenti ritenuti compensi non dichiarati: decisione della Cassazione
Il ricorso è stato proposto dagli eredi di un avvocato destinatario di un avviso di accertamento induttivo emesso dall’Agenzia delle Entrate in relazione ai redditi professionali dell’anno 2002.
Il de cuius aveva impugnato l’atto di accertamento, ottenendo inizialmente un parziale successo in CTP e successivamente in CTR.
Tuttavia, la Cassazione, con precedente pronuncia, aveva annullato la sentenza di appello, rinviando alla Corte di Giustizia Tributaria regionale di secondo grado, affinché si tenesse conto della sentenza della Corte Costituzionale n. 228/2014, che aveva eliminato la presunzione legale di evasione per i prelievi bancari dei professionisti.
Il giudice del rinvio accolse parzialmente l’appello del contribuente.
A seguito di tale decisione, gli eredi ricorrevano nuovamente in Cassazione per tre motivi:
- la sentenza impugnata non indicava chiaramente il debito residuo,
- non veniva applicata correttamente la deduzione dei costi relativi ai compensi presunti,
- non si rispettava il principio di capacità contributiva, come sancito dalla Corte Costituzionale n. 10/2023.
La Cassazione nell'rodine:
- ha rigettato il primo motivo, relativo alla presunta estinzione del giudizio per mancata riassunzione nel termine;
- accolto il secondo motivo, nella parte riguardante la mancata deduzione forfettaria dei costi;
- assorbito il terzo motivo, relativo alle spese del primo giudizio di Cassazione.
La Corte ha riaffermato un principio di diritto fondamentale: «Nel caso in cui, in seguito ad accertamento induttivo, vengano imputati al contribuente maggiori ricavi, è obbligatoria la deduzione di una quota forfettaria di costi necessari alla produzione di tali ricavi, anche in assenza di una documentazione precisa».
La ratio risiede nel rispetto dell’art. 53 della Costituzione, che impone la tassazione sulla capacità contributiva reale e non presunta. L'accertamento induttivo, anche quando fondato, non può trasformarsi in un’imposizione automatica che ignora i costi sostenuti per produrre il reddito.
Occorre evidenziare che la sentenza conferma un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ad esempio, la Cassazione n. 7122/2023 e la Cass. n. 31981/2024 avevano affermato che, in caso di accertamenti basati su presunzioni (es. movimentazioni bancarie), l’Amministrazione non può prescindere dalla stima di costi proporzionali ai ricavi accertati.
La novità della Sentenza n. 23741/2025 sta nell’estensione applicativa anche ai versamenti bancari imputati a compensi in nero, e nel rafforzamento del legame tra accertamento tributario e principi costituzionali.
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Accertamento a società estinta: conseguenze per i soci
La Cassazione ha sancito con l'Ordinanza n 23939 del 2025 che se un avviso di accertamento è notificato a una società di persone già estinta, anche gli atti emessi nei confronti dei soci devono considerarsi invalidi, salvo che non sussistano vizi autonomi.
La decisione chiarisce un nodo ricorrente nella prassi: quali effetti produce l’estinzione della società sugli accertamenti notificati successivamente, e se i soci rispondano comunque delle imposte non versate, in virtù del regime di trasparenza fiscale ex articolo 5 del TUIR.
Accertamento a società estinta: conseguenze per i soci
Il contenzioso giunto fino alla Cassazione è nato da avvisi di accertamento notificati sia a una Sas che ai suoi soci persone fisiche, relativi a redditi imputati per trasparenza.
Tuttavia, la società risultava già cancellata dal Registro delle imprese al momento della notifica degli atti.
Il giudice di primo grado aveva annullato l’avviso alla società per difetto di capacità processuale, ma aveva respinto i ricorsi dei soci, ritenendo validi gli accertamenti a loro carico.
La CTR confermava questa impostazione, non estendendo l’effetto dell’annullamento agli atti emessi individualmente verso i soci.
Il ricorso giunto in Cassazione subiva un ribaltamento degli esiti.
La Suprema Corte ha espresso un principio secondo cui si genera un effetto estensivo dell’annullamento anche ai soci, ossia:
“L’annullamento dell’avviso di accertamento notificato a una società di persone estinta si estende anche agli atti emessi nei confronti dei soci, salvo che sussistano vizi propri o cause autonome di inopponibilità (ad esempio, decadenza o nullità specifica della notifica)”.
Secondo i giudici di legittimità, nel caso in esame gli accertamenti notificati ai soci non derivavano da una successione nella posizione giuridica della società estinta, ma dalla trasparenza ex art. 5 TUIR.
Dunque, essendo lo stesso presupposto impositivo travolto dalla nullità originaria, anche i successivi atti individuali dovevano considerarsi privi di fondamento.
Risulta rilevante il riferimento al giudicato interno formatosi sul punto della nullità dell’avviso alla società: l’Amministrazione, infatti, aveva impugnato la sentenza solo per eccepire la carenza di legittimazione della società ad appellare, non contestando la nullità del provvedimento.
La Cassazione sottolinea che, in ogni caso, l’atto alla società era nullo ab origine, e se fosse stato oggetto di impugnazione diretta in sede di legittimità, sarebbe stato annullato senza rinvio, in quanto notificato a un soggetto giuridico ormai inesistente (Cass. 21125/2018; Cass. 33278/2018).
Un passaggio centrale dell’ordinanza riguarda la distinzione tra la trasparenza fiscale (art. 5 TUIR) e la successione nei rapporti giuridici in caso di estinzione societaria.
I soci di società di persone non subentrano automaticamente nei rapporti passivi della società per effetto della cancellazione, ma sono tassati direttamente per imputazione di reddito.
In questo contesto, la validità degli accertamenti a loro carico dipende dalla legittimità dell’accertamento originario alla società. Se quest’ultimo è nullo, non può sopravvivere il secondo.
La Corte esclude l'applicazione dell'art. 28, comma 4, del D.Lgs. 175/2014, il quale prevede che ai fini degli atti tributari l’estinzione della società ha effetto dopo cinque anni dalla cancellazione.
Tale norma non si applica nei casi in cui la cancellazione sia avvenuta prima del 13 dicembre 2014, come nel caso di specie.
Concludendo l’ordinanza n. 23939/2025 conferma un orientamento garantista e coerente con la giurisprudenza precedente, riconoscendo che non è possibile far sopravvivere gli effetti di un atto tributario nullo notificato a una società estinta, cercando di farli gravare sui soci attraverso la trasparenza fiscale.
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Conferimenti e riporto delle perdite fiscali: nuove regole e controlli sulla vitalità
Con la conversione in legge del Decreto-Legge 17 giugno 2025, n. 84 (Legge 30 luglio 2025, n. 108), sono state introdotte rilevanti novità in materia di operazioni straordinarie e disciplina del riporto delle perdite fiscali.
L’intervento riguarda in particolare gli articoli 176 e 177-ter del TUIR, estendendo e precisando le norme già previste per fusioni e scissioni anche ai conferimenti d’azienda, con l’obiettivo di:
- uniformare la disciplina applicabile a scissioni, fusioni e conferimenti d’azienda;
- rafforzare le misure antiabuso, prevenendo l’uso strumentale delle operazioni per ottenere vantaggi fiscali indebiti;
- semplificare il coordinamento normativo, eliminando espressioni ridondanti e aggiornando i rinvii di legge.
Queste modifiche valgono per le operazioni effettuate dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del d.lgs. 192/2024 (13 dicembre 2024). Quindi, se il periodo d’imposta coincide con l’anno solare, le novità si applicano già dal 2024.
Vediamo in sintesi le novità introdotte.
Il nuovo criterio di determinazione del patrimonio netto
Il primo intervento riguarda l’articolo 84 del TUIR.
In caso di trasferimento del pacchetto di controllo o di modifica sostanziale dell’attività svolta dalla società, il riporto delle perdite resta subordinato al superamento del c.d. “test di vitalità”.
Se tale condizione è rispettata, le perdite fiscali possono essere compensate entro un tetto massimo legato al patrimonio netto della società che le riporta.
La novità sta nel metodo di calcolo di questo limite:
- si considera il valore economico del patrimonio netto risultante da una relazione giurata di stima, ridotto di un importo pari al doppio dei conferimenti e versamenti effettuati negli ultimi 24 mesi (anziché secondo la formula più complessa basata sul rapporto tra valori economici e contabili, prevista in precedenza);
- in mancanza della relazione giurata, si fa riferimento al patrimonio netto contabile dell’ultimo bilancio, senza tener conto dei conferimenti e versamenti eseguiti nei 24 mesi antecedenti.
Questa semplificazione consente una maggiore chiarezza e riduce il rischio che i conferimenti recenti possano azzerare, di fatto, il patrimonio netto rilevante per il riporto delle perdite.
Fusioni e scissioni societarie
Analoghi criteri sono stati estesi all’articolo 172 del TUIR, in tema di fusioni societarie. Anche in questo caso, le perdite fiscali riportabili dalle società partecipanti all’operazione non possono superare il valore economico del patrimonio netto (con la riduzione pari al doppio dei conferimenti e versamenti eseguiti nei 24 mesi antecedenti la fusione).
La disciplina resta subordinata al superamento del test di vitalità, ossia alla verifica di un livello minimo di ricavi e spese per lavoro dipendente, a garanzia che la società che riporta le perdite sia effettivamente “attiva” e non meramente strumentale.
Per quanto riguarda le scissioni societarie, il rinvio operato dalla norma assicura la piena coerenza con le regole appena descritte.
Conferimenti d’azienda
Una delle principali novità riguarda l’inserimento del nuovo comma 5-bis all’articolo 176 TUIR, con il quale la disciplina sul riporto delle perdite, degli interessi passivi netti e delle eccedenze ACE viene estesa anche alle operazioni di conferimento di azienda effettuate in regime di neutralità fiscale.
In particolare, alla società conferitaria si applicano le stesse regole previste per le operazioni di scissione (art. 173, comma 10, TUIR), con riferimento al patrimonio netto risultante dall’ultimo bilancio chiuso prima della data del conferimento. In questo modo, il conferimento d’azienda viene equiparato, sotto il profilo fiscale, ad altre operazioni straordinarie come fusioni e scissioni, evitando margini di elusione attraverso il trasferimento di “bare fiscali”.
Operazioni infragruppo e coordinamento delle regole
Infine, l’articolo 2 interviene sull’articolo 177-ter TUIR, relativo al riporto delle perdite fiscali infragruppo. Le modifiche chiariscono che:
- i limiti e le condizioni al riporto non si applicano alle operazioni straordinarie (incluse fusioni, scissioni e conferimenti d’azienda) effettuate all’interno del medesimo gruppo societario, limitatamente alle perdite realizzate nei periodi d’imposta di appartenenza al gruppo stesso;
- il conferimento d’azienda viene incluso tra le operazioni per cui il Ministero dell’Economia dovrà definire, con apposito decreto, i criteri di coordinamento e le disposizioni attuative.
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Professione Commercialista e attività agricola: quando è incompatibile
Il CNDCEC con un pronto Ordini dell'8 agosto replicava a dubbi sulla compatibilità della professione di Commercialista con l'attività agricola.
Il quesito era posto da un iscritto che, con la medesima partita iva utilizzata per l’attività professionale, consistente in alcune consulenze aziendali, gestisce un bene patrimoniale di famiglia come titolare di un’attività agricola sotto forma di ditta individuale regolarmente iscritta alla Camera di Commercio con codice 01.26.00.
Attraverso lo svolgimento di tale attività, l’iscritto ha incrementato il proprio fatturato, dovendo negli anni acquisire qualifiche, certificati e autorizzazioni sanitarie necessarie e funzionali alla gestione della produzione e della relativa commercializzazione del prodotto finito.
Si chiede se l’iscritto rientri nella casistica di incompatibilità ex art. 4, del D.lgs. 139/2005 e, di conseguenza, se lo stesso debba richiedere il trasferimento dalla sezione A dell’albo all’elenco speciale per sopraggiunte cause di incompatibilità individuate nell'art. 4, co. 1, lett. c) del citato D.lgs. 139/2005.
Professione Commercialista e attività agricola: quando è incompatibile
Il CNDCEC, dopo aver premesso che con i pronto ordini esprime un semplice orientamento, evidenzia quanto segue.
L’art. 4, co. 1, lett. c) del D.lgs. 139/2005 stabilisce che l’esercizio della professione di dottore commercialista e di esperto contabile è incompatibile, tra l’altro, con l’esercizio di attività di impresa commerciale, in nome proprio o altrui.
Dalla descrizione della fattispecie risulta che il professionista, sotto la medesima partita IVA, gestisce un’attività agricola sotto forma di ditta individuale, regolarmente iscritta in CCIAA (codice ATECO 01.26.00) e che ha strutturato l’attività nel tempo, dotandosi di autorizzazioni e certificazioni sanitarie, con un incremento significativo del volume d’affari.
L’esercizio di impresa agricola, disciplinato dall’art. 2135 c.c., è oggetto di specifica attenzione nelle Note interpretative del CNDCEC, dove si evidenzia che l’art. 1 del D.lgs. 29 marzo 2004, n. 99 ha ulteriormente definito imprenditore agricolo professionale (I.A.P.) il soggetto che, in possesso di conoscenze e
competenze professionali adeguate, dedica alle attività agricole indicate dall’art. 2135 c.c. almeno il 50% del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricava da tale attività almeno il 50% del proprio reddito globale di lavoro. L’esercizio di attività di impresa agricola è consentito laddove tale attività si configuri come mero godimento, ovvero meramente conservativa del fondo agricolo, come avviene per esempio nell’ipotesi in cui i prodotti agricoli siano rivenduti esclusivamente per poter contribuire alle spese di manutenzione e conservazione del fondo agricolo.Vi è invece incompatibilità addove la vendita dei prodotti agricoli – per quantità e fatturato – configura non già il recupero delle spese di manutenzione
e conservazione del fondo, ma attività di impresa.Pertanto, non si ravvisa una condizione di incompatibilità qualora l’iscritto eserciti, in qualità di coltivatore diretto, l’attività di impresa agricola
esclusivamente con funzioni di mero godimento o meramente conservativa del fondo agricolo, mentre l’esercizio di attività d’impresa agricola è ritenuto incompatibile con l’esercizio dell’attività professionale laddove l’iscritto rivesta la qualifica di imprenditore agricolo professionale (I.A.P.).
Infine si ricorda che la qualifica di I.A.P. è attribuita formalmente dalle Regioni, attraverso i loro uffici competenti o enti delegati, come i Servizi Territoriali dell'Agricoltura o le Province, previo accertamento del possesso dei requisiti previsti dalla normativa vigente (es. tempo dedicato all’attività agricola e percentuale di reddito derivante dalla stessa).La sussistenza della qualifica di I.A.P., se certificata da tali enti, determina senza dubbio l’insorgere di una condizione di incompatibilità ai sensi
dell’art. 4, co. 1, lett. c), del D.lgs. 139/2005.In tal caso, la richiesta di trasferimento dalla sezione A dell’Albo all’elenco speciale appare fondata e l’Ordine potrà procedere con la relativa istruttoria, previa
presentazione da parte dell’iscritto della domanda e della documentazione eventualmente necessaria. -
Fattura operazioni inesistenti: quando spetta il rimborso IVA
Con la sentenza n. 22795 del 7 agosto 2025, la Corte di cassazione ha riaffermato un principio consolidato nella giurisprudenza nazionale ed europea: l’emissione di una fattura per operazione inesistente genera l’obbligo di versamento dell’Iva, salvo che sia dimostrata l’eliminazione tempestiva del rischio di perdita del gettito erariale.
La vicenda trae origine da una verifica della Guardia di Finanza che ha portato all’emissione di avvisi di accertamento per Iva indebitamente detratta a carico di una società operante nel mercato dell’energia elettrica.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, il gruppo societario coinvolto – mediante operazioni tra aziende riconducibili allo stesso soggetto economico – avrebbe simulato acquisti e vendite di energia con meccanismi a saldo zero, privi di reale contenuto economico.
Le fatture emesse, quindi, erano relative a operazioni oggettivamente inesistenti.
In particolare, la società ritenuta “cartiera” avrebbe emesso fatture per cessioni mai avvenute, ma allo stesso tempo ricevuto fatture di importo identico per riacquisti fittizi. Il meccanismo circolare – apparentemente neutro – è stato contestato come strumento fraudolento per sfruttare indebitamente la detrazione dell’Iva.
Fattura operazioni inesistenti: quando spetta il rimborso IVA
La Cassazione con la sentenza in oggetto ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, ribadendo che:
- l’Iva è dovuta in base alla fattura (anche se falsa). Secondo l’art. 21, comma 7, del DPR n. 633/1972, recependo l’art. 203 della direttiva Iva, chiunque indichi l’Iva in una fattura è obbligato a versarla, anche se l’operazione sottostante è inesistente. Questo perché il sistema dell’Iva si fonda su un principio formale: la “cartolarità” del debito tributario. La sola emissione della fattura fa sorgere l’obbligo di versamento dell’imposta.
- la detrazione è ammessa solo per operazioni effettive. In parallelo, l’art. 168 della direttiva Iva e l’art. 19 del DPR 633/1972 stabiliscono che il diritto alla detrazione sorge solo in presenza di una reale cessione o prestazione. Di conseguenza, in presenza di operazioni fittizie – come quelle “circolari” in cui la merce è formalmente ceduta e riacquistata tra le stesse società – non è ammessa alcuna detrazione.
- possibile il rimborso dell’Iva versata, ma solo se non vi è rischio di perdita di gettito
La Cassazione, richiamando la sentenza Corte UE 8 maggio 2019, causa C-712/2017, ammette che l’emittente della fattura per operazione inesistente può ottenere il rimborso dell’Iva versata, ma solo a condizione che sia stato eliminato completamente il rischio che il destinatario abbia detratto l’imposta.
In particolare, il rimborso è possibile se:
- la fattura non è mai stata utilizzata fiscalmente dal destinatario (non è stata annotata né ha generato detrazione);
- la fattura è stata ritirata tempestivamente;
- l’Agenzia delle Entrate ha disconosciuto in via definitiva la detrazione da parte del destinatario.
La sentenza n. 22795/2025 della Cassazione riporta un importante chiarimento: l’emissione di fatture “errate” o simulate comporta obblighi concreti, anche in assenza di operazioni reali.
L’unico modo per evitarne gli effetti è dimostrare, con precisione, di aver annullato il rischio di detrazione indebita.
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Fondo promozione cucina italiana all’estero: l’attività dell’ICE
Con il decreto 16 maggio del Masaf pubblicato in GU n 193 del 21 agosto si recano le regole per il Fondo promozione cucina italiana all'estero.
Ricordiamo che la legge quadro n 206 del 2023 con Disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del made in Italy all'articolo n 35
recita: Nello stato di previsione del Ministero dell'agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste è istituito un fondo, con la dotazione di 1 milione di euro per ciascuno degli anni 2024 e 2025, per la promozione del consumo all'estero di prodotti nazionali di qualità, funzionali alla corretta preparazione dei piatti tipici della cucina italiana, e per la loro valorizzazione nonché per la formazione del personale, anche attraverso scambi culturali, sulla corretta preparazione dei piatti e sull'utilizzo dei prodotti.
Vediamo cosa contiene il decreto attuativo.
Fondo promozione cucina italiana all’estero: ecco le regole per gli aiuti
Il decreto definisce le modalità di utilizzo del Fondo di cui all'art. 35, comma 1, della legge 27 dicembre 2023, n. 206 ed è destinato alla realizzazione di azioni volte alla valorizzazione e promozione del consumo all'estero di prodotti nazionali di qualità, funzionali alla corretta preparazione dei piatti tipici della cucina italiana.
Le risorse da assegnare nel quadro dell'applicazione del decreto ammontano ad euro 950.000 per l'anno 2025Per le finalità di cui all'art. 1 del decreto, l'Amministrazione si avvale dell'ICE – Agenzia per la promozione all'estero e l'internazionalizzazione delle imprese italiane, previa stipulazione con il predetto ente e con il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale di un Accordo di collaborazione ai sensi dell'art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241, recante Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.
Per la realizzazione delle finalità l'ICE promuove la cucina italiana in occasione di eventi, anche fieristici, che si svolgono all'estero.
La partecipazione agli eventi è finalizzata a valorizzare i prodotti nazionali di qualità e a promuoverne il consumo all'estero per la corretta preparazione dei piatti tipici della cucina italiana, anche prevedendo apposite sessioni formative, destinate al personale operante nel settore della ristorazione, sulla corretta preparazione dei piatti e sull'utilizzo dei prodotti.
In occasione degli eventi possono essere svolte:- a) azioni di informazione e divulgazione, rivolte al pubblico e ad operatori del settore della ristorazione, sui prodotti nazionali di qualita', sui sistemi di denominazione di origine e delle indicazioni geografiche, sulla stagionalita' dei prodotti, sempre ai fini del corretto utilizzo dei prodotti nella preparazione dei piatti tipici della cucina italiana;
- b) azioni di sensibilizzazione per la candidatura della «cucina italiana» a patrimonio immateriale dell'umanita' dell'UNESCO.
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Detrazione IVA assolta in dogana dall’importatore dei beni
La detrazione dell’IVA doganale è ammessa anche se l’importatore non è proprietario delle merci, purché queste siano utilizzate nell’attività d’impresa e vi sia una chiara correlazione con le operazioni imponibili.
Lo ha chiarito l'Agenzia delle Entrate con la risposta all'istanza di interpello n. 213 del 2025.
La società ALFA S.r.l., operante nella commercializzazione di principi attivi farmaceutici e prodotti chimici industriali, ha chiesto chiarimenti in merito alla possibilità di detrarre l’IVA assolta in dogana all’atto dell’importazione di una materia prima proveniente dalla Cina.
Il bene, denominato fattore produttivo base ZZ, era fornito free of charge da un committente giapponese e rimaneva formalmente di sua proprietà, pur essendo utilizzato da ALFA per la produzione, in Italia, di un farmaco (YY) successivamente venduto in Germania e in Paesi extra-UE.
Il nodo interpretativo riguardava quindi il diritto alla detrazione dell’IVA doganale, nonostante l’importatore non fosse proprietario della merce. In particolare:
- ALFA importava dalla Cina il fattore produttivo base ZZ, di proprietà del committente giapponese, ricevuto a titolo gratuito (free of charge),
- tale materia prima veniva poi consegnata ad una società italiana (GAMMA) per la trasformazione in un farmaco finito (YY),
- successivamente venduto dal contribuente sia in ambito UE (Germania) sia in Paesi extra-UE (es. Brasile).
La questione centrale era se la società potesse registrare la bolletta doganale e detrarre l’IVA assolta in dogana, nonostante non vi fosse un trasferimento di proprietà sul bene importato
Il parere dell’Agenzia delle Entrate
Nella risposta, l’Amministrazione finanziaria ha richiamato i principi unionali e nazionali sul diritto di detrazione, sottolineando che:
- non è necessaria la proprietà dei beni importati per esercitare la detrazione;
- è però indispensabile la presenza di un nesso diretto e immediato tra l’importazione e le operazioni attive del soggetto passivo;
- l’IVA assolta in dogana può essere portata in detrazione solo se le relative spese restano effettivamente a carico dell’importatore e incidono sul prezzo delle operazioni a valle.
Con specifico riferimento al caso di ALFA, l’Agenzia ha ritenuto che il rapporto tra importazione e commercializzazione del farmaco sembri soddisfare tali condizioni. Tuttavia, ha precisato che l’effettiva spettanza della detrazione è subordinata alla verifica in concreto dei contratti e delle spese sostenute, riservandosi ogni potere di controllo.
Pertanto, per le aziende che operano in filiere produttive internazionali, spesso caratterizzate da rapporti complessi tra fornitori, committenti e terzisti, il documento dell’Agenzia ribadisce l’importanza di:
- formalizzare correttamente i contratti con i partner esteri;
- dimostrare l’inerenza dei beni importati;
- assicurare la tracciabilità contabile delle operazioni doganali.