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OIC 34: questionario su aspetti applicativi entro il 30 settembre
L’Organismo Italiano di Contabilità (OIC) con un comunicato stampa del 21 luglio informa della pubblicazione di un questionario allo scopo di raccogliere l’opinione degli operatori sugli aspetti applicativi che hanno generato maggiori difficoltà nell’applicazione dell’OIC 34 (“ricavi”) emesso nel 2023 ed è applicabile a partire dal 1° gennaio 2024.
OIC 34: questionario su aspetti applicativi entro il 30 settembre
In particoalre, l’iniziativa di OIC trae origine da alcune richieste di chiarimento che hanno determinato l’avvio della post-implementation review (PIR) del principio e di semplificazione, anche al fine di favorire la sua applicazione e ridurre i rischi di contenzioso con le Autorità fiscali.
L’OIC 34 si applica a tutte le transazioni che comportano l’iscrizione di ricavi derivanti dalla vendita di beni e dalla prestazione di servizi indipendentemente dalla loro classificazione nel conto economico.
Con il questionario l’Organismo Italiano di Contabilità si propone di sondare gli operatori:- sui dubbi interpretativi riguardanti l’ambito di applicazione di OIC 34,
- la rilevazione dei ricavi,
- nonché il modo di contabilizzare alcune fattispecie specifiche come, ad esempio, le vendite con garanzia, le cessioni di licenze, le vendite con obbligo di ri-acquisto,
- di raccogliere suggerimenti su possibili aree di semplificazione.
Gli elementi raccolti con le risposte al questionario verranno analizzati dall’OIC al fine di valutare eventuali modifiche da apportare all’OIC 34.
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Assegnazione agevolata ai soci: entro il 30 settembre
Entro il 30 settembre le imprese possono optare per l'assegnazione agevolata dei beni ai soci.
Ricordiamo che è stata la Legge di Bilancio 2025 in vigore dal 1° gennaio a prevedere una norma ad hoc che ha riaperto questa possibilità per le società di capitali e di persone di assegnare o cedere ai soci beni immobili e mobili registrati, non strumentali per destinazione, in regime fiscale
agevolato.L’intervento introduce una nuova finestra fino al 30 settembre 2025 e ridefinisce le condizioni di accesso e le modalità di calcolo e
versamento dell’imposta sostitutiva.Scopo della misura:
- rafforzare la patrimonializzazione dei soci
- incentivare l’uscita dal perimetro societario di beni non strategici.
Invece del regime ordinario, per applicare la misura è necessario versare un’imposta sostitutiva pari all’8% (10,5% per società non operative) e al 13% sulle riserve in sospensione d’imposta.
Assegnazione agevolata ai soci: misura riproposta per il 2025
In dettaglio, con i commi da 31 a 36 dell'unico art 1 della legge, si ripropone il regime fiscale temporaneo di assegnazione agevolata di beni ai soci, introdotto dall’articolo 1, commi da 100 a 105 della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (legge di bilancio 2023).
In particolare, il comma 31 definisce l’ambito di applicazione del regime nei termini che seguono:a) Ambito soggettivo
- società costituite nella forma giuridica di:
- (i) società in nome collettivo;
- (ii) società in accomandita semplice;
- (iii) società a responsabilità limitata;
- (iv) società per azioni
- e (v) società in accomandita per azioni;
- società che hanno per oggetto esclusivo o principale la gestione di beni non strumentali e che si trasformano in società semplici entro il 30 settembre 2025.
b) Ambito oggettivo
- Assegnazione o cessione ai soci, da parte delle società costituite in una delle forme giuridiche di cui sopra, entro il 30 settembre 2025, della seguente tipologia di beni:
- beni immobili diversi da quelli strumentali ai sensi dell’articolo 43, comma 2, primo periodo, del TUIR. Ai sensi dell’articolo 43, comma 2, primo periodo, del TUIR, si considerano strumentali gli immobili utilizzati esclusivamente per l'esercizio dell'arte o professione o dell'impresa commerciale da parte del possessore.
- beni mobili iscritti in pubblici registri non utilizzati come beni strumentali nell’esercizio dell’attività d’impresa. Trasformazione delle società che hanno per oggetto esclusivo o principale la gestione dei predetti beni (non strumentali) in società semplici, entro il 30 settembre 2025.
c) Qualità di socio È necessario che, alla data del 30 settembre 2024, tutti i soci risultino iscritti nel libro dei soci, ove prescritto, ovvero che siano iscritti entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, in forza di titolo di trasferimento avente data certa anteriore al 1° ottobre 2024.
Il comma 32 definisce le modalità di calcolo dell’imposta sostitutiva da versare in caso di assegnazione o cessione ai soci di beni, ovvero di trasformazione di tali società in società semplici entro il 30 settembre 2025.
Nello specifico, l’imposta sostitutiva nella misura dell’8 per cento si applica alla differenza tra il valore normale dei beni assegnati (o, in caso di trasformazione, quello dei beni posseduti all'atto della trasformazione) ed il loro costo fiscalmente riconosciuto
Per le società che non risultano operative in almeno due dei tre periodi d’imposta precedenti a quello in corso al momento dell’assegnazione, della cessione o della trasformazione, l’imposta sostitutiva si applica nella misura del 10,5 per cento.
Ricordiamo che ai sensi dell’articolo 30 della legge n. 724 del 1990 si considerano non operative le società (di capitali, di persone e stabili organizzazioni in Italia di società non residenti) che hanno conseguito ricavi effettivi (ammontare complessivo dei ricavi ed incremento delle rimanenze risultanti dal Conto Economico) inferiori ai ricavi presunti (determinati applicando dei coefficienti di legge ad alcune voci dello Stato Patrimoniale).
Inoltre, ai sensi del medesimo comma, si applica l’imposta sostitutiva del 13 per cento sulle riserve in sospensione d’imposta annullate per effetto dell'assegnazione dei beni ai soci e quelle delle società che si trasformano.
Il successivo comma 33, con riferimento ai beni immobili, riconosce alle società la possibilità di richiedere che il valore normale sia determinato in misura pari al valore risultante dall'applicazione all'ammontare delle rendite risultanti in catasto dei moltiplicatori – di cui al decreto del Ministero delle finanze del 14 dicembre 1991- determinati con i criteri previsti dal comma 4, primo periodo dell’articolo 52 del decreto del Presidente della Repubblica n. 131 del 1986.
In caso di cessione, si precisa che qualora il corrispettivo della cessione sia inferiore al valore normale del bene determinato ai sensi dell’articolo 9 del TUIR (valore di mercato) o al suo valore catastale, è computato in misura non inferiore a uno dei due valori.
Il comma 34 dispone che il costo fiscalmente riconosciuto delle azioni o quote possedute dai soci delle società trasformate debba essere aumentato della differenza assoggettata a imposta sostitutiva.Inoltre, si prevede che nei confronti dei soci assegnatari non operi la presunzione di distribuzione prioritaria dell’utile e delle riserve di utili di cui all’articolo 47, commi 1, 5, 6, 7 e 8 del TUIR.
n ogni caso, si precisa che il valore normale dei beni ricevuti, al netto dei debiti accollati, debba ridurre il costo fiscalmente riconosciuto delle azioni o delle quote possedute.
Il comma 35 stabilisce che per le suddette assegnazioni e cessioni ai soci, le aliquote dell’imposta di registro eventualmente applicabili sono ridotte alla metà (dal 3 per cento all’1,5 per cento), mentre le imposte ipotecarie e catastali si applicano in misura fissa (pari a 200 euro).
Infine, il comma 36 reca delle indicazioni sul versamento dell’imposta sostitutiva prevedendo che l’imposta sostitutiva debba essere versata in due rate:- la prima (pari al 60 per cento dell’imposta dovuta) entro il 30 settembre 2025
- e la seconda (pari al restante 40 per cento) entro il 30 novembre 2025, secondo le modalità di cui al decreto legislativo n. 241 del 1997 (con modello F24).
Si chiarisce, inoltre, che si applicano le disposizioni previste per le imposte sui redditi per la riscossione, i rimborsi ed il contenzioso
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Accertamento induttivo sui conti correnti bancari dei professionisti: principio Cassazione
Con Ordinanza 23 agosto 2025, n. 23741, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul tema delicato dell’accertamento induttivo sui conti correnti bancari dei professionisti.
Il fulcro della controversia è la deducibilità dei costi in presenza di versamenti ritenuti compensi non dichiarati.
La Corte ribadisce un principio ormai consolidato: anche in caso di accertamento basato su presunzioni, l’Agenzia delle Entrate deve considerare una quota di costi deducibili per rispettare il principio di capacità contributiva.
Vediamo il dettaglio del caso di specie.
Deducibilità dei costi in presenza di versamenti ritenuti compensi non dichiarati: decisione della Cassazione
Il ricorso è stato proposto dagli eredi di un avvocato destinatario di un avviso di accertamento induttivo emesso dall’Agenzia delle Entrate in relazione ai redditi professionali dell’anno 2002.
Il de cuius aveva impugnato l’atto di accertamento, ottenendo inizialmente un parziale successo in CTP e successivamente in CTR.
Tuttavia, la Cassazione, con precedente pronuncia, aveva annullato la sentenza di appello, rinviando alla Corte di Giustizia Tributaria regionale di secondo grado, affinché si tenesse conto della sentenza della Corte Costituzionale n. 228/2014, che aveva eliminato la presunzione legale di evasione per i prelievi bancari dei professionisti.
Il giudice del rinvio accolse parzialmente l’appello del contribuente.
A seguito di tale decisione, gli eredi ricorrevano nuovamente in Cassazione per tre motivi:
- la sentenza impugnata non indicava chiaramente il debito residuo,
- non veniva applicata correttamente la deduzione dei costi relativi ai compensi presunti,
- non si rispettava il principio di capacità contributiva, come sancito dalla Corte Costituzionale n. 10/2023.
La Cassazione nell'rodine:
- ha rigettato il primo motivo, relativo alla presunta estinzione del giudizio per mancata riassunzione nel termine;
- accolto il secondo motivo, nella parte riguardante la mancata deduzione forfettaria dei costi;
- assorbito il terzo motivo, relativo alle spese del primo giudizio di Cassazione.
La Corte ha riaffermato un principio di diritto fondamentale: «Nel caso in cui, in seguito ad accertamento induttivo, vengano imputati al contribuente maggiori ricavi, è obbligatoria la deduzione di una quota forfettaria di costi necessari alla produzione di tali ricavi, anche in assenza di una documentazione precisa».
La ratio risiede nel rispetto dell’art. 53 della Costituzione, che impone la tassazione sulla capacità contributiva reale e non presunta. L'accertamento induttivo, anche quando fondato, non può trasformarsi in un’imposizione automatica che ignora i costi sostenuti per produrre il reddito.
Occorre evidenziare che la sentenza conferma un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ad esempio, la Cassazione n. 7122/2023 e la Cass. n. 31981/2024 avevano affermato che, in caso di accertamenti basati su presunzioni (es. movimentazioni bancarie), l’Amministrazione non può prescindere dalla stima di costi proporzionali ai ricavi accertati.
La novità della Sentenza n. 23741/2025 sta nell’estensione applicativa anche ai versamenti bancari imputati a compensi in nero, e nel rafforzamento del legame tra accertamento tributario e principi costituzionali.
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Proroga COVID di 85 giorni per decadenza: vale anche per l’IMU
La normativa emergenziale COVID-19, sospendendo dall’8 marzo al 31 maggio 2020 le attività di liquidazione, accertamento, riscossione e contenzioso degli enti impositori, ha disposto la proroga di 85 giorni dei termini di decadenza e di prescrizione (art. 67 commi 1 e 4 del DL 18/2020), tale sospensione si applica anche ai tributi comunali, in quanto la proroga abbraccia tutti gli uffici degli enti impositori, compresi gli enti locali e quindi riguarda anche i termini per l'IMU.
Proroga COVID di 85 giorni per la decadenza: vale anche per l’IMU
La vicenda ha origine da un avviso di accertamento IMU per l’anno 2015 notificato da Soget Spa, concessionario della riscossione per un Comune.
L’avviso fu spedito il 25 marzo 2021, mentre il termine di decadenza risultava prorogato fino al 26 marzo 2021 in virtù della normativa emergenziale anti-Covid (art. 67, D.L. n. 18/2020).
Tuttavia, la società contribuente ricevette l’avviso solo il 30 marzo 2021 oltre il termine, di qui la contestazione sulla tempestività dell’atto.
Il ricorso è stato accolto in primo grado e confermato in appello.
La Corte di Giustizia Tributaria Regionale di secondo grado ha ritenuto l’avviso notificato tardivamente e quindi inefficace per decadenza, affermando che fa fede la data in cui l’atto è entrato nella disponibilità del contribuente ovvero il 30 marzo 2021, e non quella di consegna all’ufficio postale ovvero il 25 marzo 2021.
Soget ha presentato ricorso in Cassazione, denunciando una violazione delle norme sulla notifica degli atti tributari e sul termine di decadenza, invocando il principio della scissione soggettiva degli effetti della notifica.
La Corte ha ribadito che in materia tributaria si applica la scissione soggettiva della notificazione ossia, i fini del rispetto del termine di decadenza, è sufficiente che l’ente impositore abbia consegnato l’atto per la notifica entro il termine previsto, anche se il contribuente lo riceve successivamente.
Durante l’emergenza pandemica, l’art. 67 del D.L. n. 18/2020 ha sospeso i termini di decadenza dal 8 marzo al 31 maggio 2020, determinando una proroga di 85 giorni.
Nel caso specifico, il termine ordinario di decadenza quinquennale in scadenza naturale il 31 dicembre 2020 è stato prorogato al 26 marzo 2021.
La spedizione del 25 marzo 2021, dunque, è risultata tempestiva.
Con l’ordinanza n. 21765/2025, la Sezione Tributaria della Cassazione ha accolto il ricorso di Soget, cassando la sentenza di secondo grado e rinviando alla CGT per un nuovo esame.
La Corte ha affermato il seguente principio di diritto: “In tema di notificazione degli atti di accertamento tributario, ai fini del rispetto del termine di decadenza, rileva la data in cui l’ente ha consegnato l’atto all’agente notificatore (es. Poste), non quella di effettiva ricezione da parte del contribuente”.
La sentenza conferma la giurisprudenza prevalente, in particolare quanto già espresso dalle Sezioni Unite nel 2021, rafforzando il principio della scissione soggettiva anche in ambito tributario.
Pertanto, la decisione della Cassazione non rappresenta un cambio di orientamento, ma piuttosto una precisazione applicativa in un contesto particolare: quello delle proroghe emergenziali dovute al Covid-19.
In sintesi la Cassazione, dopo avere richiamato l’applicabilità al caso di specie del principio generale della scissione soggettiva degli effetti della notificazione dell’avviso di accertamento (secondo cui, ai fini della verifica del rispetto dei termini da parte dell’ente impositore che notifica, va fatto riferimento alla data di invio dell’atto), ha precisato che la sospensione per 85 giorni dei termini relativi alle attività di liquidazione, controllo, accertamento, riscossione e contenzioso, disposto a norma del citato art. 67 commi 1 e 4 del DL 18/2020 per “gli uffici degli enti impositori”, si applica a tutti gli enti impositori, erariali e locali, dato che la disposizione non reca alcuna distinzione.
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Accertamento a società estinta: conseguenze per i soci
La Cassazione ha sancito con l'Ordinanza n 23939 del 2025 che se un avviso di accertamento è notificato a una società di persone già estinta, anche gli atti emessi nei confronti dei soci devono considerarsi invalidi, salvo che non sussistano vizi autonomi.
La decisione chiarisce un nodo ricorrente nella prassi: quali effetti produce l’estinzione della società sugli accertamenti notificati successivamente, e se i soci rispondano comunque delle imposte non versate, in virtù del regime di trasparenza fiscale ex articolo 5 del TUIR.
Accertamento a società estinta: conseguenze per i soci
Il contenzioso giunto fino alla Cassazione è nato da avvisi di accertamento notificati sia a una Sas che ai suoi soci persone fisiche, relativi a redditi imputati per trasparenza.
Tuttavia, la società risultava già cancellata dal Registro delle imprese al momento della notifica degli atti.
Il giudice di primo grado aveva annullato l’avviso alla società per difetto di capacità processuale, ma aveva respinto i ricorsi dei soci, ritenendo validi gli accertamenti a loro carico.
La CTR confermava questa impostazione, non estendendo l’effetto dell’annullamento agli atti emessi individualmente verso i soci.
Il ricorso giunto in Cassazione subiva un ribaltamento degli esiti.
La Suprema Corte ha espresso un principio secondo cui si genera un effetto estensivo dell’annullamento anche ai soci, ossia:
“L’annullamento dell’avviso di accertamento notificato a una società di persone estinta si estende anche agli atti emessi nei confronti dei soci, salvo che sussistano vizi propri o cause autonome di inopponibilità (ad esempio, decadenza o nullità specifica della notifica)”.
Secondo i giudici di legittimità, nel caso in esame gli accertamenti notificati ai soci non derivavano da una successione nella posizione giuridica della società estinta, ma dalla trasparenza ex art. 5 TUIR.
Dunque, essendo lo stesso presupposto impositivo travolto dalla nullità originaria, anche i successivi atti individuali dovevano considerarsi privi di fondamento.
Risulta rilevante il riferimento al giudicato interno formatosi sul punto della nullità dell’avviso alla società: l’Amministrazione, infatti, aveva impugnato la sentenza solo per eccepire la carenza di legittimazione della società ad appellare, non contestando la nullità del provvedimento.
La Cassazione sottolinea che, in ogni caso, l’atto alla società era nullo ab origine, e se fosse stato oggetto di impugnazione diretta in sede di legittimità, sarebbe stato annullato senza rinvio, in quanto notificato a un soggetto giuridico ormai inesistente (Cass. 21125/2018; Cass. 33278/2018).
Un passaggio centrale dell’ordinanza riguarda la distinzione tra la trasparenza fiscale (art. 5 TUIR) e la successione nei rapporti giuridici in caso di estinzione societaria.
I soci di società di persone non subentrano automaticamente nei rapporti passivi della società per effetto della cancellazione, ma sono tassati direttamente per imputazione di reddito.
In questo contesto, la validità degli accertamenti a loro carico dipende dalla legittimità dell’accertamento originario alla società. Se quest’ultimo è nullo, non può sopravvivere il secondo.
La Corte esclude l'applicazione dell'art. 28, comma 4, del D.Lgs. 175/2014, il quale prevede che ai fini degli atti tributari l’estinzione della società ha effetto dopo cinque anni dalla cancellazione.
Tale norma non si applica nei casi in cui la cancellazione sia avvenuta prima del 13 dicembre 2014, come nel caso di specie.
Concludendo l’ordinanza n. 23939/2025 conferma un orientamento garantista e coerente con la giurisprudenza precedente, riconoscendo che non è possibile far sopravvivere gli effetti di un atto tributario nullo notificato a una società estinta, cercando di farli gravare sui soci attraverso la trasparenza fiscale.
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Fattura operazioni inesistenti: quando spetta il rimborso IVA
Con la sentenza n. 22795 del 7 agosto 2025, la Corte di cassazione ha riaffermato un principio consolidato nella giurisprudenza nazionale ed europea: l’emissione di una fattura per operazione inesistente genera l’obbligo di versamento dell’Iva, salvo che sia dimostrata l’eliminazione tempestiva del rischio di perdita del gettito erariale.
La vicenda trae origine da una verifica della Guardia di Finanza che ha portato all’emissione di avvisi di accertamento per Iva indebitamente detratta a carico di una società operante nel mercato dell’energia elettrica.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, il gruppo societario coinvolto – mediante operazioni tra aziende riconducibili allo stesso soggetto economico – avrebbe simulato acquisti e vendite di energia con meccanismi a saldo zero, privi di reale contenuto economico.
Le fatture emesse, quindi, erano relative a operazioni oggettivamente inesistenti.
In particolare, la società ritenuta “cartiera” avrebbe emesso fatture per cessioni mai avvenute, ma allo stesso tempo ricevuto fatture di importo identico per riacquisti fittizi. Il meccanismo circolare – apparentemente neutro – è stato contestato come strumento fraudolento per sfruttare indebitamente la detrazione dell’Iva.
Fattura operazioni inesistenti: quando spetta il rimborso IVA
La Cassazione con la sentenza in oggetto ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, ribadendo che:
- l’Iva è dovuta in base alla fattura (anche se falsa). Secondo l’art. 21, comma 7, del DPR n. 633/1972, recependo l’art. 203 della direttiva Iva, chiunque indichi l’Iva in una fattura è obbligato a versarla, anche se l’operazione sottostante è inesistente. Questo perché il sistema dell’Iva si fonda su un principio formale: la “cartolarità” del debito tributario. La sola emissione della fattura fa sorgere l’obbligo di versamento dell’imposta.
- la detrazione è ammessa solo per operazioni effettive. In parallelo, l’art. 168 della direttiva Iva e l’art. 19 del DPR 633/1972 stabiliscono che il diritto alla detrazione sorge solo in presenza di una reale cessione o prestazione. Di conseguenza, in presenza di operazioni fittizie – come quelle “circolari” in cui la merce è formalmente ceduta e riacquistata tra le stesse società – non è ammessa alcuna detrazione.
- possibile il rimborso dell’Iva versata, ma solo se non vi è rischio di perdita di gettito
La Cassazione, richiamando la sentenza Corte UE 8 maggio 2019, causa C-712/2017, ammette che l’emittente della fattura per operazione inesistente può ottenere il rimborso dell’Iva versata, ma solo a condizione che sia stato eliminato completamente il rischio che il destinatario abbia detratto l’imposta.
In particolare, il rimborso è possibile se:
- la fattura non è mai stata utilizzata fiscalmente dal destinatario (non è stata annotata né ha generato detrazione);
- la fattura è stata ritirata tempestivamente;
- l’Agenzia delle Entrate ha disconosciuto in via definitiva la detrazione da parte del destinatario.
La sentenza n. 22795/2025 della Cassazione riporta un importante chiarimento: l’emissione di fatture “errate” o simulate comporta obblighi concreti, anche in assenza di operazioni reali.
L’unico modo per evitarne gli effetti è dimostrare, con precisione, di aver annullato il rischio di detrazione indebita.
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Professione Commercialista e attività agricola: quando è incompatibile
Il CNDCEC con un pronto Ordini dell'8 agosto replicava a dubbi sulla compatibilità della professione di Commercialista con l'attività agricola.
Il quesito era posto da un iscritto che, con la medesima partita iva utilizzata per l’attività professionale, consistente in alcune consulenze aziendali, gestisce un bene patrimoniale di famiglia come titolare di un’attività agricola sotto forma di ditta individuale regolarmente iscritta alla Camera di Commercio con codice 01.26.00.
Attraverso lo svolgimento di tale attività, l’iscritto ha incrementato il proprio fatturato, dovendo negli anni acquisire qualifiche, certificati e autorizzazioni sanitarie necessarie e funzionali alla gestione della produzione e della relativa commercializzazione del prodotto finito.
Si chiede se l’iscritto rientri nella casistica di incompatibilità ex art. 4, del D.lgs. 139/2005 e, di conseguenza, se lo stesso debba richiedere il trasferimento dalla sezione A dell’albo all’elenco speciale per sopraggiunte cause di incompatibilità individuate nell'art. 4, co. 1, lett. c) del citato D.lgs. 139/2005.
Professione Commercialista e attività agricola: quando è incompatibile
Il CNDCEC, dopo aver premesso che con i pronto ordini esprime un semplice orientamento, evidenzia quanto segue.
L’art. 4, co. 1, lett. c) del D.lgs. 139/2005 stabilisce che l’esercizio della professione di dottore commercialista e di esperto contabile è incompatibile, tra l’altro, con l’esercizio di attività di impresa commerciale, in nome proprio o altrui.
Dalla descrizione della fattispecie risulta che il professionista, sotto la medesima partita IVA, gestisce un’attività agricola sotto forma di ditta individuale, regolarmente iscritta in CCIAA (codice ATECO 01.26.00) e che ha strutturato l’attività nel tempo, dotandosi di autorizzazioni e certificazioni sanitarie, con un incremento significativo del volume d’affari.
L’esercizio di impresa agricola, disciplinato dall’art. 2135 c.c., è oggetto di specifica attenzione nelle Note interpretative del CNDCEC, dove si evidenzia che l’art. 1 del D.lgs. 29 marzo 2004, n. 99 ha ulteriormente definito imprenditore agricolo professionale (I.A.P.) il soggetto che, in possesso di conoscenze e
competenze professionali adeguate, dedica alle attività agricole indicate dall’art. 2135 c.c. almeno il 50% del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricava da tale attività almeno il 50% del proprio reddito globale di lavoro. L’esercizio di attività di impresa agricola è consentito laddove tale attività si configuri come mero godimento, ovvero meramente conservativa del fondo agricolo, come avviene per esempio nell’ipotesi in cui i prodotti agricoli siano rivenduti esclusivamente per poter contribuire alle spese di manutenzione e conservazione del fondo agricolo.Vi è invece incompatibilità addove la vendita dei prodotti agricoli – per quantità e fatturato – configura non già il recupero delle spese di manutenzione
e conservazione del fondo, ma attività di impresa.Pertanto, non si ravvisa una condizione di incompatibilità qualora l’iscritto eserciti, in qualità di coltivatore diretto, l’attività di impresa agricola
esclusivamente con funzioni di mero godimento o meramente conservativa del fondo agricolo, mentre l’esercizio di attività d’impresa agricola è ritenuto incompatibile con l’esercizio dell’attività professionale laddove l’iscritto rivesta la qualifica di imprenditore agricolo professionale (I.A.P.).
Infine si ricorda che la qualifica di I.A.P. è attribuita formalmente dalle Regioni, attraverso i loro uffici competenti o enti delegati, come i Servizi Territoriali dell'Agricoltura o le Province, previo accertamento del possesso dei requisiti previsti dalla normativa vigente (es. tempo dedicato all’attività agricola e percentuale di reddito derivante dalla stessa).La sussistenza della qualifica di I.A.P., se certificata da tali enti, determina senza dubbio l’insorgere di una condizione di incompatibilità ai sensi
dell’art. 4, co. 1, lett. c), del D.lgs. 139/2005.In tal caso, la richiesta di trasferimento dalla sezione A dell’Albo all’elenco speciale appare fondata e l’Ordine potrà procedere con la relativa istruttoria, previa
presentazione da parte dell’iscritto della domanda e della documentazione eventualmente necessaria.